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A lesson to (re)learn, la montagna come Maestra

Mont Blanc Du Tacul
45°5124N 6°5316E

20-21 luglio 2021

Mamma lo diceva sempre: “Chi ha tempo non aspetti tempo.”

Lo ripeteva a mio fratello Marco fino allo sfinimento. In prossimità di una verifica gli diceva di non aspettare l’ultimo momento per prepararsi. Ma Marco aveva la testa dura. Lui preferiva fare di testa sua. E proprio per questo i voti non gli davano mai ragione. 

Questa è stata una delle prime vere lezioni che ho imparato da bambino: tergiversare raramente migliora certe situazioni. Ciò che invece non mi ha insegnato mia mamma, crescendo, me lo ha insegnato la montagna, e in montagna sappiamo bene tutti quanto “essere preparati” sia sinonimo non solo di risultato, ma anche, e soprattutto, di sicurezza. Quindi, se è vero che in quanto essere umano, di natura imperfetto, sono programmato per sbagliare, la montagna è la seconda mamma sempre pronta a ricordarmi ciò che dimentico, a rinfrescarmi ripetutamente la memoria.

“Ti sei allenato un pochino con i ramponi? Hai fatto almeno una giornata in quota quest’anno?”

Il Faletti sa benissimo che l’ultima volta che ho messo i ramponi è stata con lui in Cima Tosa. 

Era aprile.

“Potevi ben farti due uscite in Ortles e fare un po’ di quota.”

Di quella ormai lontana giornata di primavera sono rimaste invariate soltanto le temperature. Decisamente troppo alte, decisamente fuori dal normale.
Sempre di quella ormai lontana giornata di primavera, proprio a causa di queste temperature esagerate, è rimasto invariato anche il mio sproporzionato tasso di sudorazione, sempre più vicino a quello di un ippopotamo africano.

Stiamo fiancheggiando i Satelliti proprio per verificare le condizioni della terminale del canale che attaccheremo domani.

“No Matte. L’ultima volta che ho messo i ramponi è stato in Tosa, non ricordi? Poi da quando ho iniziato il corso di parapendio lo sforzo maggiore è stato sedermi in una mutanda volante.” Riprendo un attimo fiato. Comunque parlare di acclimamento mi sembra esagerato! Dobbiamo salire sul Tacul, mica fare una prima salita in Himalaya!”

Mando in vacca la conversazione. So di aver torto marcio, ma è troppo tardi per poter anche solo pensare di piangere sul latte versato.

Aggiungo. “Sono con te. E se sono con te mi sento tranquillo.

È vero. Se avessi dovuto legarmi con un’altra persona è molto probabile che mi sarei fatto degli scrupoli, ma col Matte mi sento in una botte di ferro. Lui probabilmente sarebbe giustificato a nutrire qualche dubbio in più, ma questa è un’altra storia.

Il Matte, all’anagrafe Matteo Faletti, è una guida alpina esperta e un alpinista stracazzuto. Come me, lui vive a Povo, un paesino sulla collina di Trento. È una persona generosa e alla mano. Lo considero un amico. Se gli ho chiesto di accompagnarmi qui è perché mi fido di lui. 

Domani lui penserà al nostro avanzamento rapido e sicuro in cordata, mentre io avrò il lusso di concentrarmi solamente sulle fotografie. Ecco, se ve lo steste ancora domandando, il Matte e io non ci troviamo qui per divertirci. 

“Comunque domani danno alta pressione tutto il giorno.” Gli dico, come per autoconvincermi.
“Non abbiamo fretta e, se proprio inizia a bussarmi la testa, ho un pastiglione nello zaino. Abbiamo tutto il tempo di fare un lavoro come si deve. Toh, guarda. Si vede il canale.”

L’attacco del canale è okay.
Concordiamo entrambi sul fatto che se questa notte ci sarà un buon rigelo, domani voleremo come missili. Giriamo i tacchi ramponati in direzione del Rifugio Torino. Solo ora, rivolgendomi nuovamente verso la Vallée Blanche, realizzo di essere immerso tra le affilatissime guglie del Bianco.

Almeno la metà delle montagne che ho visto in vita mia sono state con una macchina fotografica nello zaino. L’ultima e unica volta che sono stato in Monte Bianco è stata sempre per un servizio fotografico: due giorni memorabili sull’Aiguille d’Entreves e l’Aiguille de Rochefort assieme al Luchino e all’Alepì. Le notti sono state altrettanto memorabili. In tenda sul ghiacciaio e ovviamente attrezzati alla bell’e buona. Roba da reumatismi pesanti. 

Lo shooting che mi aspetta domani sarà su una delle creste più estetiche e famose dell’intero arco alpino, la cui storia si riconduce alla figura altrettanto memorabile dell’alpinista francese Armand Charlet.

Armand Charlet, nato nei primi mesi del 1900, è stato senza dubbio uno degli alpinisti più importanti della sua epoca, in un periodo, quello di pace tra i due conflitti mondiali, in cui gli alpinisti europei si concentrarono nelle salite degli ultimi e più difficili “problemi” delle Alpi. Parliamo in questo caso di puzzle alpinistici del calibro delle pareti nord di Cervino, Grandes Jorasses e Eiger.
Il nome di Armand è stato associato per più di cinquant’anni alle salite più dure della catena del Monte Bianco. La bibliografia afferma che ha compiuto oltre tremila salite e che fosse affezionato in particolar modo alllAiguille Verte, salita e scesa un centinaio di volte per 18 diversi itinerari, di cui 7 nuovi. Inoltre Armand Charlet è ricordato anche per essere stato il primo alpinista ad essere riuscito nella prima traversata di tutte e cinque le Aiguilles du Diable al Tacul.

Era il 4 agosto 1928. Assieme a lui c’erano la guida G. Cachat e i clienti Robert Underhill e Mary O’Brien. Questo itinerario prende il nome di Arête du Diable.
A poco meno di un secolo di distanza ho la fortuna di poter ripercorrere e fotografare il capolavoro alpinistico di Charlet.

Rientriamo al Rifugio Torino che il sole è ancora alto. Ordino due birre per placare la sete. Neanche il tempo di ordinare il secondo giro che è già quasi ora di cena.
Non riesco a smettere di pensare a domani. E se davvero avessi sottovalutato il contesto e avessi, come naturale conseguenza, cagato fuori dal vaso? Il dubbio non è altro che un tarlo che si sfama del proprio senso di insicurezza e cresce in agitazione.

“Matte, sono un po’ agitato,” dico. Poi, “Spero di riuscire a fare tutto e farlo bene. Per essere sicuri direi di mettere la sveglia alle 01:30.”

Il Faletti mi guarda come se lo stessi prendendo per il culo.

“Ellamadonna! Non credi che sia esagerato alzarsi così presto?”

Adesso sono io che credo mi stia prendendo per il culo.

“Domani voglio essere al Col du Diable con il buio. Voglio avere il tempo di guardarmi attorno prima di scattare. Sai come diceva mia mamma? Chi ha tempo…”

“…non aspetti tempo.” Controbatte il Matte.

Spesso l’agitazione che provo è auto-indotta. Ne sono consapevole.
Crescere non implica maturare. E maturare non per forza rende saggi. La considero una sorta di poetica dell’inadeguatezza. In fotografia, la mia fotografia, mi piace non sentirmi all’altezza. È un istinto che muta da necessità a istigazione. È un tipo di spinta che solitamente mi porta a esperienze intense e risultati inaspettati.

Per esempio, fare un servizio fotografico su un terreno alpinistico come l’Arête du Diable è tutt’altro che semplice. Esistono difficoltà oggettive e soggettive.

Le difficoltà oggettive nell’organizzare un photo shooting in un ambiente tecnico a 4000m sono minime, ma fondamentali: le previsioni meteorologiche, la difficoltà dell’itinerario, la disponibilità delle persone coinvolte.
Le difficoltà soggettive invece sono, per l’appunto, soggettive. Dal mio punto di vista è solo una questione di scelte. 

Come fotografo ho sempre voluto rifiutare la soluzione comoda. La semplicità paga e mette al sicuro, ma di certo non soddisfa. Non sempre almeno. E soprattutto non me. Ho sempre voluto adattare me stesso, e di conseguenza la mia fotografia, alla montagna piuttosto che il contrario. Sono convinto che l’abilità del fotografo del sapersi muovere in montagna non sia più importante dell’etica del fotografo stesso. Provo a spiegarmi meglio. Nel momento in cui il fotografo cerca di catturare delle immagini in un certo tipo di attività si dà per scontato che quel tipo di attività la sappia fare, entro il range personale di limiti mentali e fisici. Il come decide di catturare quelle immagini è forse un aspetto molto più importante e sottovalutato. Io ho deciso di darmi delle regole da seguire sul modo in cui scatto e su quello che voglio trasmettere. Non si tratta solamente di dare valore al proprio lavoro, ma anche e soprattutto di dare valore al proprio essere. Fotografare sarà anche il mio lavoro, ma mai e poi mai voglio che si riduca a una mera attività di sostentamento economico. È il solito equilibrismo esistenziale: realizzare in maniera compiuta la propria visione. La mia è la seguente.

La fotografia è il risultato di un’esperienza.
Io pretendo da me stesso che il risultato visivo di quell’esperienza sia il più prossimo possibile alla verità. Scattare in montagna deve rappresentare nella sua totalità l’esperienza del fotografo e quella dei soggetti. Se c’è chi crede nella fotografia perfetta, io preferisco prestare fede alla perfezione del fotografare. La perfezione nell’atto di fotografare non si raggiunge spesso. Anzi, capita raramente. Ma quando capita è una figata. 

Nel momento in cui non sono in grado di garantire la verità nel ritratto di un’esperienza cerco il compromesso fintanto che esso risulta accettabile. Soprattutto in questo momento storico, e per sempre nel futuro, la montagna non ha bisogno e non merita finzione.

Oh, ma la Ming e il Leo dove minchia sono fini…

Neanche il tempo di finire la frase e mi bussano alla spalla.

Oh Pavana, guarda che è da mezzora che ti chiamo!” È la Fede, il cui viso è solcato da un sorriso che pare stanco.

“Scusateci per il ritardo, ma le doppie sono state un calvario. Il Leo si sta cambiando. Avete già mangiato?”

Il Matteo ed io annuiamo.

“Si avevamo troppa fame! Però vi facciamo compagnia al tavolo se volete.”

Domani ci saranno anche la Fede e il Leo.

Fede ormai la conosco da qualche anno. Abbiamo lavorato assieme parecchie volte. La cosa che più mi piace di lei è la sua disponibilità e la voglia di lavorare bene. A differenza di molti atleti con cui ho lavorato in questi anni, Fede capisce la fiducia che le aziende ripongono non solo nella figura del fotografo che scatta, ma dell’atleta stesso che va a farsi fotografare. Lei rispetta il mio lavoro di fotografo e io rispetto la sua immagine di atleta. E il rispetto, come ben sapete, è alla base dell’amicizia.
Leo invece l’ho conosciuto neanche un annetto fa a Ceresole, sempre assieme a Fede, sempre per qualche fotografia in parete. Leo è sempre motivato, sorridente, con una gran voglia di fare. E questo per la buona riuscita di un servizio fotografico è fondamentale.

Condividiamo un genepì un attimo prima che spengano le luci. Abbiamo tutti e quattro una gran voglia di dormire.

“Vi va bene la sveglia alle 01:30?”

La Fede subito mi guarda storto.

“E dio Pavana quanto vuoi metterci ad arrivare al colle?!” continua, “facciamo alle 02:00.”

“01.45. Ultima offerta.” Le faccio gli occhi dolci e la faccia da stupido.

Va bene, dai. Ma solo perché ti voglio bene.

Lo dice poco convinta, mentre Matteo e Leo non dicono niente. Riesco a percepire i loro affettuosi vaffanculo telepaticamente.

Chiudo gli occhi. Ed è già ora.

Neanche 5 ore di sonno. Praticamente uno starnuto. Questa cosa che la quota rarefa il tempo oltre che l’aria proprio non me la spiego.

Ci alziamo come marionette e recuperiamo zaini e materiale come ninja maldestri. A colazione non siamo soli, anzi, è la mostra dei ritratti di Modigliani: facce allungate sformate dalla stanchezza,  occhi incastonati per sbaglio in sguardi totalmente assenti, le mandibole in modalità pilota automatico. Tutti attingono al calderone del caffè nella speranza di godere di una rapida e indolore tappa al bagno prima di partire.

Siamo pronti. Sprofondiamo nel mattino notturno con ancora il retrogusto del caffè amaro in bocca.

La notte è così nera da rendere invisibili i Satelliti. La processione di frontali sulla Kuffner al Maudit è una preannunciata decorazione natalizia e un buon punto di riferimento per l’imbocco del canale che si trova sul versante opposto del Cirque du Maudit. Sfrecciamo sull’ottimo rigelo notturno con una veloce rullata sbilenca.

Tempo una ventina di minuti e siamo già all’attacco. Ci spogliamo e ripartiamo veloci. Fisicamente mi sento bene, ma sento anche che è la prima volta in tutta l’estate che metto i ramponi. Tecnicamente fatico sugli appoggi di misto e il Faletti per sdrammatizzare mi prende in giro.

Stai dritto con quella schiena! Mi sembra di vederti camminare sulle uova!

Ha maledettamente ragione. Avrei potuto prepararmi un minimo, non serviva poi molto, giusto una o due uscite per riprendere confidenza con gli attrezzi del mestiere. Il proverbio materno è una cicala nel cervello: “Chi ha tempo, non aspetti tempo”, direbbe. Io penso solamente una cosa, “fanculo!
Fortunatamente in queste situazioni il buio diventa tuo alleato e annienta la componente psicologica del vuoto. Progrediamo in conserva su un pendio mediamente ripido. Fede e Leo sono poco sopra di noi e si muovono come due animali selvatici nel loro ambiente: eleganti, silenziosi, sicuri.
Arrivati al colle, ci accorgiamo di essere in movimento da meno di due ore.

“Bella raga! Quasi quasi potevamo dormire mezz’oretta in più!” dico scherzando. Mi guardano storto, ma poi scoppiamo tutti quanti a ridere.

“Vai a cagare, mona!” Rincalza il Faletti.

Dal Col du Diable si apre una finestra incredibile sulla parte orientale del gruppo del Bianco, dal Dente del Gigante fino a quasi tutta la linea della traversata delle Grandes Jorasses e oltre.
Sta albeggiando.

Ho fretta di salire velocemente al Corne du Diable, la prima guglia, per studiare senza fretta i primi scatti, quelli che farò con la luce più bella. Proseguo col Matte a velocità costante.

“Oh Matte,” gli faccio “forse oggi siamo in pochi a farla.” 

E aggiungo riprendendo fiato per un secondo: “Per le foto è una figata non avere gente che ti rovina l’inquadratura.”

Mi sento felice, al posto giusto al momento giusto.
Purtroppo quella sensazione leggera dura il tempo di un niente, perché aggirando l’ennesimo pilastro roccioso troviamo le prime cordate incolonnate.

Il Faletti non sa se ridere o piangere. “Per fortuna che eravamo in pochi oggi, eh?”

La mia risposta esce spontanea: “Merda! Dobbiamo darci una mossa.”

Scatto le prime immagini, giostrandomi con le lenti in maniera tale da non avere troppo disturbo nell’inquadratura. L’alba è meravigliosa e con la giusta calma porto le prime immagini al sicuro. È inutile a dirsi, ma, fotograficamente parlando, la calma gioca un ruolo fondamentale in momenti come questo.

L’Arête du Diable si accende e si scalda assieme alla neve, la quale, tuttora, decora la cresta a stagione inoltrata. I passaggi di roccia sono bellissimi, aerei e tutt’altro che banali, specialmente con gli scarponi. Le calate invece sono sempre lunghe ed esposte. Scatto solamente dove ritengo ne valga veramente la pena, perché il sole comincia presto a batterci sulle tempie e il forte caldo a seccarci la gola. È un lento progredire, il cui ritmo è un elastico tra attesa, azione e battibecchi con le altre cordate. Le fotografie vengono comunque da sole, perché è oggettivamente impossibile mancare la bellezza dell’ambiente in cui ci troviamo. Proseguiamo comunque in maniera sicura, fluidi su quella buccia rocciosa, fino alla cima. 

La croce di vetta è sommersa dalla neve, mentre noi ci sentiamo come aggrediti dall’immensità del Monte Bianco. Dopo 7 o 8 ore in movimento cominciamo tutti e quattro a provare una certa stanchezza. 

L’abbraccio in cima è veloce, la voglia di farci coccolare in rifugio tanta.  

Come qualsiasi rientro, quello tra i profondi crepacci della Mer de Glace sembra infinito. Immensa è anche quell’insana e insensata voglia di rivivere una giornata simile il prima possibile, rimane soltanto l’agrodolce e nostalgica necessità di dare tempo e spazio al corpo e alla mente.
Qui siamo. E siamo felici.

C’è sempre una lezione da imparare, dicono. Ognuno ha la sua.
Può essere quella di allenarsi in maniera adeguata prima di un’uscita, quella di crearsi il proprio piccolo mondo sul filo del rasoio, o quella di credere nell’importanza dei valori di fiducia e di amicizia.

Una lezione da imparare può essere anche banalmente informarsi sulla storia dellitinerario che si andrà a ripercorrere. Vi confido che nel momento in cui il Matte mi ha raccontato la storia delle Aiguilles du Diable e di Armand Charlet, la mia risposta è stata spontanea: “Eccchimminchia è Armand Charlet?”

C’è sempre una lezione da imparare.
Le altre invece, se capita di dimenticarle, capita anche di rimpararle.