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Al Refuge de la Charpoua, la storia di Sarah Cartier

By: Ilaria Chiavacci 

Photos: Pierre Cadot

Sarah Cartier gestisce uno dei rifugi più impervi d’Europa e lo fa in compagnia dei suoi due figli: Armand, di tre anni, e Camille, di 10 mesi. Patagonia ha scoperto la sua storia e oggi ve la raccontiamo qui.

A pochi chilometri c’è la scintillante Chamonix con i suoi negozi blasonati e i ristoranti super chic dove si mangia la fonduta migliore, ma dalla conca di Charpoua tutto questo non è che un brusio di sottofondo, una presenza in lontananza. Charpoua è una valle incastonata in mezzo ad alcune delle vette francesi più belle: si affaccia sul lato destro della Mer de Glace, che in francese significa “mare di ghiaccio”, e tutto intorno svettano l’Aiguille Verte, 4122 metri d’altitudine, e Les Drus ,3754 metri. A nord c’è la cresta delle Flammes de Pierre e a sud-ovest la catena Moine-Nonne-Evêque-Cardinale. Il panorama qui toglie il fiato e forse è proprio per questo che, nel 1904, è stato costruito un minuscolo rifugio, incastonato in cima ad un isolotto di roccia, lo storico Refuge de la Charpoua.

Costituito da una stanza sola e tuttora senza acqua o elettricità, è stato costruito con tavole di pino portate sulle spalle dai membri del Chamonix Alpine Sports Club. Oggi il Refuge de la Charpoua è una tappa fondamentale per gli alpinisti che scalano Les Drus: si colloca infatti come punto di partenza e di arrivo di molte vie storiche, ma anche solo arrivare fin qui è un’impresa. Dalla stazione ferroviaria di Montenvers si inizia a salire, ma alla fatica si aggiunge l’attraversamento del ghiacciaio: l’avvicinamento al rifugio prevede infatti di addentrarsi nelle morene e arrampicarsi in molti punti. Difficile che qui arrivino escursionisti poco esperti. Sarah Cartier non è una di questi: originaria di Chamonix ha deciso di abbandonare, almeno in estate, la cittadina, con i suoi negozi e i suoi ristoranti con la fonduta, per gestire il Refuge de la Charpoua. Il motore di tutto è stata la voglia di Sarah di lavorare in autonomia: voleva essere il capo di sé stessa, vivere il più possibile a contatto con le sue montagne, e fare qualcosa di avventuroso.

Le Refuge de la Charpoua soddisfaceva in pieno tutti e tre questi requisiti e così Sarah lo gestisce da ben otto anni: da metà giugno fino a fine agosto è lei ad offrire vitto e alloggio agli escursionisti. Fornisce informazioni sulle condizioni della montagna visto che la osserva quotidianamente e costantemente e presta i primi soccorsi in caso di necessità. Sarah tiene testa non solo alla montagna, ma anche ai commenti sessisti che spesso, in un mondo tradizionalmente dominato dagli uomini come quello dell’alpinismo, riceve ancora. Già perché una donna che svolge un lavoro duro tutta da sola e lo fa in compagnia dei suoi figli piccoli, nell’universo tendenzialmente machista che è l’alpinismo, viene percepita come un animale raro. A Sarah non è mai saltato per la testa di abbandonare l’una o l’altra cosa: la sua passione e il suo lavoro o la sua famiglia. Dal disgelo fino a che le temperature non scendono e il ghiaccio e la neve sbarrano l’accesso a Les Drus, la sua famiglia sta con lei.

Cruciale è il sostegno di Noé, il suo compagno, con il quale ha trovato il modo di portare avanti sia la sua vita familiare, che la sua vita in alta montagna. La prima volta che è salita fino al rifugio da mamma ha portato il piccolo Armand legato sulla schiena e ha trascorso quella prima estate con lui, tra il lavoro e la bellezza delle cime e della fauna che le abitano: Armand in particolare ha sviluppato una passione per i choucas, i gracchi alpini, il cui verso il piccolo ha imparato ad imitare prima ancora di imparare a parlare. “Ogni anno, quando vengo qua su, non lo faccio perché lo voglio, ma perché ne sento il bisogno” racconta Sarah in “The Charpoua Way”, il documentario che Patagonia le ha dedicato. “Sono una host d’alta quota: preparo la zuppa a 2800 metri, gestisco le prenotazioni e parlo con gli alpinisti. Questo è un angolo di paradiso e chi si spinge fin qui viene a cercare la libertà.”

Certo, vivere senza né acqua né elettricità, con i bagni fuori costituiti da qualche blocco di granito in croce, non è quello che comunemente si può definire comfort, ma è ciò che fa sentire bene e protetta Sarah e la sua famiglia. Questo è un rifugio nel vero senso della parola: una capanna incastonata nelle montagne dove si condivide tutto: cibo, calore ed esperienze. Da un lato c’è la cucina, con il tavolo di legno vecchio di cent’anni, dall’altro ci sono due tramezzi di legno che fungono da separè per una dozzina di letti a castello. Tutto nel rifugio è organizzato in modo da non sprecare neanche un centimetro di spazio, ma allo stesso tempo per garantire, a chi lo gestisce e agli alpinisti, di stare il ​​più a loro agio possibile. In una capanna così piccola però la privacy non è il punto forte, soprattutto se ci sono anche due bambini. Nell’estate del 2022 infatti, ad Armand si è aggiunta Camille, di appena 10 mesi. Per questo, dal 1904, il rifugio ha subito delle leggere modifiche: intorno alla terrazza è stata sistemata una rete per prevenire gli incidenti ed è stata annessa alla struttura principale una mini-camera da letto, costruita dal marito di Sarah e calata in posizione da un elicottero.

La sveglia, per Sarah e per i bambini, suona ogni mattina alle 6:45, quando va preparata la colazione delle 7 e bisogna mettere a posto quello che hanno lasciato gli escursionisti che sono partiti per l’ascensione alle 2 del mattino. Il lavoro, nel resto della giornata, è quello tipico di un host: lavare i piatti, rifare i letti, tenere traccia delle fatture e poi iniziare a cucinare per la cena. Sarah cerca di svolgere la maggior parte dei suoi compiti al mattino, in modo che i bambini possano rimanere in camera, oppure finisce di svolgerli con Camille legata a lei da una fascia sulla schiena. Se il tempo è bello, Sarah mette fuori il box per far giocare i bambini, se non lo è, prepara un impasto e aiuta Armand a creare delle sculture che rappresentano i rumori della tempesta che sente fuori. Dopo pranzo è il momento di passeggiare ed esplorare, poi è l’ora del pisolino e del bagno. Più tardi, danno il benvenuto ai nuovi ospiti per la notte e preparano la cena prima di lavare i piatti e andare a letto. A Sarah piace pensare di portare a termine dei compiti tanto semplici quanto essenziali: ospitare, servire cibo, prendersi cura delle persone e dover chiedere aiuto se necessario. Sono tutte cose meravigliose da insegnare ai giovani. “Quando alcuni degli scalatori si rendono conto che sto crescendo i miei figli qui da sola, mettono tutto in prospettiva e dicono che scalare Les Drus non è poi tutta questa grande impresa. Ma la verità è che io li ho portati qui per egoismo: il rifugio è come se fosse il mio terzo figlio, non mi sentivo ancora pronta a lasciare questa vita, so che ho ancora molte avventure da vivere qui. Questo però è un bel posto dove crescere i propri figli, perché qui imparano il senso di libertà, il contatto con la natura, ma anche il concetto stesso di famiglia. Perché un rifugio significa proprio questo: un posto dove sentirsi al sicuro, una piccola bolla fatta di legno.”