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Alba, sulle pendici del Monte Rosa

Text & photos by Matteo Pavana

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Cos’è l’alba se non una pennellata sulla tela del mondo?

È la notte che diventa giorno, è il buio dipinto di luce.

Ciò che non è l’alba è ovvietà. 
È una semplicità rara e complessa, seppur gratuita, per chi abbia voglia di spiarne l’arrivo. Io mi apposto sulla cima delle montagne, dove il suo sapore è più delicato e profondo. L’aria scura, densa di paure e incertezza, lascia spazio, come una carezza, al calore dell’esistenza.
Ogni alba sancisce la nascita di un nuovo giorno e scandisce il tempo, un poco alla volta. Ogni giorno non è mai uguale, come il tempo è composto dai medesimi secondi, ma sempre diversi l’uno dall’altro. Il tempo pare così essere immobile ma mutabile. C’è chi la definisce la relatività delle cose; io preferisco esprimerla come la soggettività dell’incomprensibile.
Se il fotografo è un cacciatore di luce, cos’è il montanaro se non un cacciatore di albe? Entrambi vanno alla ricerca bramosa di quell’attimo allungato, di quella deformazione in cui la razionalità del fenomeno viene scalzata dalla meraviglia dell’animo. Il fotografo la fissa con le mani, il montanaro con gli occhi. È irrazionale fissarla con la mente. Infatti non ho mai sentito nessuno esclamare “Che magnifica rifrazione e diffrazione di fotoni in contatto con l’atmosfera!”. È disumano invece non averla mai vista.

L’alba dilata l’occhio con forme e sfumature mai uguali nell’aspetto. Con esso muta anche il suo suono, che sia il silenzio croccante sulla neve, il sibilo del vento nell’erba, o persino un respiro profondo e veloce che si spegne nell’infinito. Può avere il sapore del sangue dei bronchi incendiati, oppure della terra come un bocca arsa dalla sete. Può avere la consistenza della roccia calda e ruvida o del ghiaccio millenario che si scioglie. Profuma alle volte di libertà, alle volte di morte.
L’alba è il sesto senso, una percezione extrasensoriale. Alle volte non c’è, e non puoi fare altro che sentirne la mancanza.

Preferisco l’alba al tramonto per lo stesso motivo per cui preferisco l’inizio alla fine.
Ero un piccolo sedicenne la prima volta che vidi un’alba. Speciale e classica allo stesso tempo. Una perfetta valle a “V” con il sole che vi sorgeva nel mezzo, più o meno come quella che disegnerebbe qualsiasi bambino. Dubitavo di vedere tante albe in vita mia. A dirla tutta non pensavo nemmeno che la mia vita avrebbe ruotato così tanto tra le montagne. La montagne e la fotografia hanno gloriosamente condannato per sempre i miei sensi a quell’ineguagliabile meraviglia che si perfeziona rigorosamente con il tempo.

Esiste l’alba perfetta? Diciamo di sì, diciamo di no.
Mi domando sempre quando sarà.
Immagino il luogo e la forma. Penso alle sfumature del cielo e alla dimensione delle nuvole. Anzi penso se ci saranno nuvole o se sarà un cielo terso. Penso al sole, se salirà timido o se sarà una palla di fuoco. Osservo quale sarà la porzione di valle a prendere la prima luce e quali invece saranno le sponde più scure. Immagino gli animali nel bosco, a quando sarà il primo cinguettio e quale sarà la prima punta di larice ad infiammarsi.
L’alba più bella arriva sempre, di sorpresa, sempre diversa. È un’attesa reciproca, un incontro sulle vette del mondo, perché si sa, il mondo dalla cima dalle montagne è semplicemente più bello.
L’alba perfetta esiste ogni qualvolta che si presenta.

Ripongo il significato della vita in quel momento, quando tutto sboccia e rinasce.
Sono vigile, sono vivo.
Alle volte penso che potrei morire anche in quel momento lì, con una smorfia di sorriso sulla bocca.
Sono tutto e niente, sono centro e margine, sono buio e luce.

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