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Artifishal, l’etica del salmone

di Luca Albrisi

Sotto una brillante superficie di buone intenzioni si nasconde la strada verso l’estinzione.

“There’s not a right way to do the wrong thing”.
È uno dei commenti finali di Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, all’interno di questo documentario da lui prodotto e fortemente voluto.
Artifishal non è solo un documentario sulla situazione dei vivai e degli allevamenti ittici in mare che stanno indiscutibilmente portando all’estinzione il salmone selvatico (e innumerevoli altre specie di pesci). In realtà questo documentario è in grado di mettere in discussione problematiche ben più profonde, che spesso tendono a rimanere sotto la superficie, soprattutto a causa del loro essere presentate – o mascherate – da buone intenzioni.
Il salmone diventa dunque un cavallo di Troia, il cui obiettivo non è quello di immolarsi in difesa di sé stesso ma diventare lo specchio del modo in cui si sta riducendo il rapporto tra l’uomo e il mondo animale, in particolare, e tra l’uomo e l’ambiente naturale in senso più ampio.
Personalmente credo che il problema possa essere analizzato da due, fondamentali, punti di vista.
Uno etico, e quindi più teorico/filosofico, e uno utilitaristico, decisamente più pratico/economico.
La cosa che colpisce, però, è che da entrambi questi punti di vista sembra non esserci alcun riscontro positivo nel modo in cui ci stiamo  approcciando attualmente alla problematica.

Il salmone è una delle forme di vita più sorprendenti tra tutti i pesci, capace di nascere in fiume, migrare verso il mare con lo scopo di crescere e rinforzarsi e poi tornare – controcorrente – al luogo d’origine per riprodursi e perpetuare la specie.
Una volta morto, inoltre, costituisce un sorprendente nutriente per altre forme di vita a lui vicine. In pratica un miracolo della natura che per secoli ha costituito un apporto fondamentale ad animali, vegetali ed esseri umani.
Ma, come purtroppo sappiamo bene, molti di questi ultimi sono stati abituati a pensare alla natura come un grande magazzino dal quale prendere, prendere e ancora prendere, senza basarsi su un reale criterio di necessità.
Questo atteggiamento ha presto portato molte specie sulla strada dell’estinzione e tra queste vi è, tristemente, anche il salmone.
Per ovviare a questo problema, ma continuando contemporaneamente a sfruttare economicamente sia i salmoni che i fiumi (tramite dighe, centraline, ecc.), l’uomo ha allora deciso di ricorrere a un intervento tecnico/scientifico.
In che modo?
Tramite il controllo e la modificazione tecnologica degli ecosistemi, cioè “producendo” salmone tramite allevamenti ittici e vivai con il fine della reintroduzione in fiume oltre che, ovviamente, a scopi di consumo.
“La tecnologia, di per sé, è indubbiamente qualcosa che ci ha permesso di raggiungere risultati stupefacenti in molti ambiti della nostra vita ma quando applichiamo la tecnologia alla manipolazione e al controllo degli ecosistemi spesso in un primo momento si ha un apparenza di successo ma poi ci si avvia verso enormi fallimenti” testimonia lo zoologo Gary Meffe.
E, nello specifico, il risultato di questi procedimenti di allevamento e reintroduzione si è concretizzato con oltre il 40% di salmoni estinti mentre per proteggere i restanti, è stato necessario ricorrere all’”extincion protection act”.
Ancora una volta, dunque, mi chiedo se sia necessario arrivare a tutto questo giustificando tali azioni con il semplice scopo di voler salvaguardare la produzione di salmone da una parte e lo sfruttamento dell’ambiente-fiume dall’altra.
Ma soprattutto, ha davvero senso concepire una produzione che abbia come soggetto altri animali?

Tutto sembra inutile dunque.
Che lo scopo sia, come si diceva precedentemente, di origine morale o utilitaristico sembra che ogni volta che l’uomo cerca di mettere mano a tali questioni non ne derivi nulla di buono. Anche i migliori fini conservazionistici hanno spesso come risultato una modificazione evolutiva in negativo.
Dovremmo allora – credo io – fare un passo indietro e, come suggerisce anche Yvon Chouinard smetterla di “provare a controllare la natura invece di lavorare con essa”.
Credo sia necessaria una presa di consapevolezza alimentare che ci faccia rendere davvero conto di quello che mettiamo nei nostri piatti. Di cosa realmente si tratti e il percorso che ha fatto per arrivare fino a noi.
Personalmente ho deciso di non mangiare più carne (e si, i vegetariani non mangiano nemmeno il pesce in quanto anch’esso appartiene al mondo animale) per motivi prima di tutto etici – non trovo infatti giusto la riduzione di un essere animale senziente a semplice prodotto – ma questa è una scelta personale che deve in caso maturare in ognuno di noi. Ma, più in generale, credo sia comunque necessario un cambio di paradigma ancora più profondo che ci metta di fronte a delle scelte radicali e alla decisione se andare in una direzione etica, di coesistenza e di profitto sostenibile (sotto vari aspetti) oppure verso una logica di puro profitto consumistico.
Perché, per come la vedo io, al momento dipende tutto proprio dal nostro essere schiavi del consumismo.
Perché vogliamo mangiare salmone – potenzialmente – tutti i giorni?
E come mai non vogliamo renderci conto che salmone a così basso prezzo significa necessariamente sfruttamento animale, ambientale e talvolta anche umano?
Come detto nel documentario “Tutti vogliono salvare le balene” – e aggiungerei anche i panda, o le tartarughe o i salmoni – ma purtroppo l’amara realtà dei fatti è che sono in pochi ad voler veramente cambiare il proprio stile di vita per raggiungere questi obbiettivi.
Sono in pochi a voler rinunciare, almeno in parte, alla falsa idea di benessere che ci è stata propinata nell’ultimo secolo; all’idea che ogni cosa – e ogni vita – debba essere a nostra disposizione, in qualunque momento.
A rinunciare al consumo, fine a se stesso.

Lo so, non è facile, ma credo sia necessario un radicale cambio di mentalità.
Dovremmo ripartire dal mettere in discussione noi stessi e il nostro rapporto con il mondo, rivedendo quei criteri tramite cui diamo una lettura “economica” alla nostra relazione con la natura e gli altri animali e cercare di acquisire una dimensione etica di coesistenza di tali rapporti.
E dovremmo inoltre cercare di farlo senza cadere in atteggiamenti protezionistici del tipo “sta a noi che amiamo la natura difenderla” perché, in fondo, anche questo atteggiamento fa intuire una posizione di non meritata superiorità. L’obbiettivo dovrebbe invece essere quello di lottare per una co-evoluzione rispettosa.
In fondo, la questione dovrebbe ridursi a “permettere ai pesci di essere pesci in un ambiente per pesci” perché la natura sa come fare un pesce e l’unica cosa che ci viene richiesta è di lasciarli essere ciò che sono senza sfruttarli eccessivamente.
Si tratta di sviluppare una prospettiva che sappia andare oltre noi stessi e sappia mettere al primo posto le esigenze di chi verrà dopo di noi. E non necessariamente dei nostri figli, dei nostri nipoti o di altri esseri umani ma del benessere di quell’ecosistema che è stato in grado di generare tutti gli esseri viventi, inclusi noi.
Per questo sono convinto che lo scopo dell’ambientalismo moderno non debba limitarsi alla denuncia di problematiche e soprusi ambientali ma debba piuttosto lavorare su azioni volte a questo cambio di prospettiva.
E dobbiamo essere proprio noi, che ci troviamo spesso in natura, a “guardare più in là” cercando di diffondere questo messaggio.
Certo, scardinare un sistema politico-economico non è facile ed è sicuramente un obbiettivo sulla lunghissima distanza. Ma probabilmente è l’unico modo per arrivare a una reale co-evoluzione con quella natura di cui facciamo parte.
E sono certo che perdere questa sfida significherebbe l’estinzione di innumerevoli specie tra cui, molto probabilmente, la nostra.
E per dirlo con le parole di Frankie Joe Myers, della tribù nativa americana degli Yurok, che ha assistito alla scomparire dei salmoni dai propri fiumi:
“Devi essere forte e rispettoso.
E combattere le battaglie noncurante della differenza di dimensioni.
A noi non interessa se di fronte abbiamo l’uomo più grosso o più ricco del mondo.
Noi alziamo il tiro, sempre.”

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