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Alessandro D’Emilia intervista

by Davide Fioraso

Alessandro realizza documentari, seguendo generalmente spedizioni e progetti di sportivi estremi, ma anche questioni ambientali e sociali. Il suo “Dusk Chorus Documentary”, pluripremiato film sul tema della biodiversità nelle parti più remote della foresta pluviale, ha vinto in entrambe le categorie scientifiche, ambientali e sociali di prestigiosi film festival internazionali. Nel maggio del 2018, ha seguito e filmato il viaggio di Arjun Vajpai, il più giovane alpinista al mondo a scalare alcuni degli ottomila della terra, e raggiunto la cima della terza montagna più alta del pianeta, il Kangchenjunga (8680 m).

Raccontami di te.
Sono nato a Roma nel 1988, ma per fortuna sono cresciuto nelle Dolomiti. Qui ho imparato a vivere, a divertirmi e a praticare sport come lo sci, l’arrampicata, la slackline e il parapendio. Anno dopo anno ho sviluppato un interesse sempre più forte nel settore audiovisivo rimanendo affascinato dai misteri e dai fenomeni della natura, dai luoghi inesplorati, dal contatto con le popolazioni locali. Dopo essermi laureato in fotografia Documentary Zelig School, ho concentrato davvero tutte le mie energie in quello che più adoravo fare. Ora lavoro in tutto il mondo come direttore della fotografia e pilota di droni freelance per documentari che seguono principalmente spedizioni e progetti sportivi estremi, questioni ambientali e sociali.
Il primo vero momento dove ho capito che la luce, la montagna e il nostro pianeta sono davvero unici è stato dopo aver camminato sulle prime highline nelle Dolomiti, dal 2010. Niente fino ad allora mi aveva emozionato a tal punto. Dormire in cima alle montagne per poi camminare su una fettuccia larga poco più del mio alluce con il vuoto sotto ai piedi mi ha regalato emozioni indelebili e fatto capire quanto siamo fortunati. Essere sospeso sul vuoto mi ha fatto riflettere molto, mi ha regalato tramonti e albe che rimarranno sempre nel mio cuore. Mi ha fatto trasformare la paura in rispetto.

Raccontami i progetti per te più importanti che hai svolto in ambiente outdoor.
Negli ultimi anni sono stato agli estremi: dai 40° con 99% di umidità dell’ Amazzonia,  ai -35° a 8600m di altezza in Himalaya. Ho appena cominciato a conoscere i posti un pò meno affollati del pianeta.
Difficile dire quali siano stati i progetti più importanti. Tutti hanno un valore in unicità e storia.
Sicuramente non dimenticherò mai i brividi a volare con Aaron Durogati a 6300m in tandem, in parapendio, in India, nella valle selvaggia dello Spiti.
Ma se devo esprimermi anche in termini di progetti con un valore etico e sociale e non solo di performance sportive non ci sono dubbi che il progetto “outdoor” che più mi affascina è “Fragments of Extinction” dell’artista ed eco-compositore David Monacchi. Con lui siamo stati in Amazzonia nel 2016 per un mese e mezzo cercando di registrare con microfoni ad alta definizione 3D cicli circadiani di 24h. E sinceramente non saprei definire dove ho dovuto più mettere alla prova il mio coraggio e le mie abilità. Se al buio di notte, fermo ed immobile ad ascoltare e registrare i suoni degli ecosistemi più remoti e incontaminati, a volte terrificanti, cercando di non incappare in qualche incontro ravvicinato con serpenti o creature a me ignote o scalando il monte Kanchejunga.
Oltre al fatto che “Dusk Chorus documentary”, che riprende in parte il progetto di Monacchi sul tema della biodiversità acustica degli ecosistemi in via di estinzione, è diventato un film pluripremiato vincendo in campo scientifico, ambientale e sociale in prestigiosi festival internazionali, quindi anche una grande soddisfazione professionale.

Hai mai provato un’emozione talmente forte di fronte a qualcosa da non riuscire ad immortalarla?
Eh si, e sono molto contento quando mi capita. Soprattutto quando me lo auguro e lo lascio capitare, quando sono da solo, quando vado in montagna senza avere un motivo preciso. Solo per allenarmi. A volare. Solo per godermela. Spesso, capitano situazioni in cui mi piacerebbe avere la videocamera ma allo stesso tempo realizzo che sono cosi belle proprio perché rimangono impressi solo nella memoria e vissuti nel presente.
Fare fotografie e filmare mi ha insegnato a mettere il cuore nel momento in cui scatto. A pensare che è da tutta la vita che sto aspettando proprio quel preciso instante che può durare anche 1/4000 di secondo e che non può sfuggirmi perché irripetibile. Quindi è come se mi portassi sempre con me tutte quelle emozioni e quelle situazioni passate e non immortalate ma che hanno contribuito forse ancora di più a renderlo cosi speciale.

Perché hai deciso di seguire e filmare la spedizione di Arjun Vajpai?
Dopo essere stato nel 2017 a seguito della spedizione di Simone Moro e Tamara Lunger, sempre al Kanchenjunga, proprio al campo base ho avuto il piacere di conoscere Arjun. Un ragazzo ancora più giovane di me che era lì e al contrario mio, che non ero mai stato sopra i 4000 m prima d’ora, aveva già scalato altre montagne come Everest, Manaslu, Choyu. Conosceva tutti gli alpinisti d’alta quota come un bambino conosce i nomi dei calciatori.
Aveva un entusiasmo contagioso.
Pian piano ci siamo conosciuti, da subito abbiamo capito che avremmo fatto qualcosa insieme.
È stata davvero una fortuna incredibile trovarsi in sintonia, così giovani tra i giganti della terra.
Il caso poi ha voluto che l’anno seguente, essendo lui un mentore in India e il più giovane ragazzo ad oggi ad aver scalato 6 dei 14 ottomila all’età di 24 anni, mi ha ingaggiato per le riprese che sarebbero servite ad ultimare il documentario di Vice e supportato da Mountain Dew sulla sua vita fino ad oggi. Io ovviamente ho accettato subito.

Quali sono stati gli alti e i bassi che hai vissuto in quest’esperienza?
Se dovessi dire qual è stato il momento più difficile, sicuramente sarebbe quello in cui la mia macchina fotografica ha smesso di funzionare proprio di fronte all’alba più strabiliante mai vista a 8500 metri di altezza, a soli 280 metri dalla vetta. Le mie mani erano quasi congelate, ma è stato uno degli attimi più belli della mia vita e mi sono sentito più piccolo di una zanzara. Completamente vulnerabile. Impotente. Subito dopo ho pensato che avrei dovuto trovare una soluzione a tutti i costi e per fortuna ci sono riuscito. Ho messo la camera sotto ai miei abiti, a contatto con la pelle, e questo ha contribuito a scaldarla un po’. Ma ciò ha anche creato molta condensa che è finita direttamente sul sensore. Non mi restava molto da fare, ho tolto l’obiettivo usando le mie dita e unghie congelate, e grattato via il sottile strato di ghiaccio che si era formato sul sensore, poi ho provato a rimetterlo. Stavo per piangere quando la videocamera si è accesa di nuovo in REC.

Che rapporto si crea tra il filmer (o fotografo) e l’alpinista che stai seguendo?
Ogni volta è diverso. Ma una costante rimane. Non si tratta di andare solo a filmare o fare fotografie. Quando sei lassù, attaccato alla stessa corda o a scalare insieme per la stessa vetta non è solo lavoro ovviamente. C’è la fiducia, che è il primo step da raggiungere insieme. Prima lo si raggiunge e prima si iniziano ad ottenere anche buoni risultati in termini di immagini. Per me è fondamentale, ancora prima di fare dei buoni scatti. Devo potermi fidare, e lo stesso vale ancora di più per l’atleta. Questo non è scontato. è poi la più grande soddisfazione che ti permette di pensare insieme progetti futuri, credere in quei progetti, per poterli raccontare al meglio.

In quanto ambientalista, quale messaggio vuoi dare agli alpinisti e ai fotografi che visitano le montagne?
Trovarmi in Amazzonia per filmare e registrare i suoni degli ecosistemi in via di estinzione per il progetto “Fragments of Extinction” mi ha reso più consapevole di quanto io sia fortunato a fare quello che mi piace come lavoro. Ma è anche una grande responsabilità.
L’arte della fotografia e dei video è in grado di cambiare la società e gli stili di vita delle persone. Non bisogna mai dimenticare quanto siamo fortunati a poter visitare e scalare in quei luoghi sacri. Sono unici e di una bellezza da favola. Anche una piccola semplice azione come ripulire il campo base dalle sigarette gettate via dagli altri, o qualsiasi altro piccolo gesto, può essere un esempio molto importante e un modo per aiutare quei luoghi a tornare ad essere più puliti com’erano prima che arrivassero gli uomini. È purtroppo un grande paradosso che mi sempre ha fatto soffrire. Ci sono molti cosiddetti “appassionati di montagna” alla caccia di ottomila che non hanno il minimo rispetto per quei posti. Ma questo atteggiamento nuoce per prima cosa a noi stessi, ma poi anche alle altre persone vi si recheranno dopo di noi. Ma soprattutto, è un vero danno per il nostro pianeta e per quei giganti che ci piace immaginare sempre splendenti e immacolati, puliti come quando una nevicata ha cancellato ogni traccia. Sempre lì, immobili e imponenti ad osservare cosa succede sul nostro amato pianeta. Dovremmo pensarci più spesso, ogni singolo momento.

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