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Apa Sherpa intervista

By Marta Manzoni

Ha scalato l’Everest 21 volte. È uno dei più grandi alpinisti viventi. Ma non ha scelto di esserlo. Da bambino il mio obbiettivo era diventare un medico. Volevo ricevere un’istruzione e studiare per salvare la vita delle persone”. Apa Sherpa è nato a Thame, ai piedi della vetta più alta della Terra. Quando aveva 12 anni suo padre è morto. Lui ha smesso di andare a scuola e ha iniziato a lavorare prima come facchino per le spedizioni e poi come guida di trekking. Dovevo sostenere economicamente la mia famiglia ma non guadagnavo abbastanza per mantenerci. Così sono diventato un portatore d’alta quota: era un lavoro molto rischioso ma più remunerativo, non è stata una scelta, avevamo bisogno di soldiracconta Apa. Prima dell’Everest ha scalato molte montagne, piano piano sempre più alte. Ha iniziato a trasportare carichi sulla vetta più alta del mondo nel 1988. Il 10 maggio del 1990 raggiunge la cima per la prima volta: “mi ricordo bene la sensazione che ho provato: ero completamente eccitato, mi sembrava di essere in paradiso!Loved by All, il documentario premiato al Banff Film Festival, al Trento Film Festival e al Film Festival di Telluride racconta la sua storia. Assolutamente consigliato.

Come si svolge la giornata di un portatore d’alta quota?
La parte più pericolosa è scalare le cascate di ghiaccio: per questa ragione bisogna svegliarsi la mattina presto, molte ore prima dell’alba, alle due o alle tre, e attraversarle prima che sorga il sole, perché altrimenti diventa troppo rischioso. Non puoi sapere se tornerai a casa vivo oppure no: anche per questa ragione preghiamo sempre due volte al giorno, la mattina presto e la sera, e rivolgiamo sempre un pensiero alle nostre famiglie, preghi e scali, preghi e scali. Cerchiamo di organizzare i nostri bagagli in modo da rendere agevole riportarli indietro ai nostri cari nel caso dovessimo morire. Se riesci a tornare a casa alla fine della spedizione, che dura diversi mesi, ti aspettano tante faccende da sbrigare ma anche l’amore della tua famiglia. Cerchi di godere dell’affetto delle persone che ti vogliono bene e assaporare ogni momento con loro perché sai che ogni istante è prezioso. Quando siamo tutti insieme ci rilassiamo, mangiamo e beviamo e soprattutto parliamo, parliamo tantissimo!

Quale è il ruolo dei portatori durante le spedizioni?
È un lavoro molto duro. Dobbiamo assicurare le corde alle quote più alte, portare tutto l’equipaggiamento necessario per la spedizione, le tende, l’ossigeno, l’acqua, i viveri, allestire tutti i campi e andare avanti e indietro da uno all’altro, in continuazione, trasportando un carico pesantissimo, spesso senza usare ossigeno. Inoltre dobbiamo controllare il meteo per capire quando è il momento migliore per procedere. Quando il tempo non è favorevole bisogna aspettare, a volte a lungo: la spedizione può impiegare da un mese e mezzo fino a oltre due mesi. Bisogna concentrarsi sulla missione, prendere decisioni, assumersi responsabilità, gestire la logistica e il lavoro di squadra, sacrificarsi. Appena le circostanze sono adatte abbiamo il compito di portare i clienti in cima e riportarli poi al campo base. A questo punto per gli alpinisti l’impresa è conclusa: si rilassano e tornano a casa. Spetta a noi sherpa il compito di pulire, sistemare e riportare l’attrezzatura indietro: questo è un momento delicato, dove accadono molti incidenti, perché si fa sentire la stanchezza dei tanti metri di dislivello ad alta quota che abbiamo percorso facendo su e giù.

Com’è nata l’Apa Sherpa Foundation?
Dal desidero di offrire alle nuove generazioni un’alternativa a questa vita così pericolosa. Questo lavoro non concede giorni liberi e quindi è automatico per i bambini abbandonare la scuola. Voglio che gli abitanti dei villaggi della mia comunità possano diventare medici, ingegneri, avvocati, scegliere la vita che vogliono e arrampicare solo se hanno voglia, per vivere un’avventura, come fanno gli alpinisti. Quando ho smesso di fare questo lavoro sono riuscito a permettere ai miei figli di studiare negli Stati Uniti: sono molto fortunati e mi rendono orgoglioso. Insieme alla mia famiglia siamo impegnati anche per la tutela dell’ambiente, ogni anno torniamo insieme diverse volte in Nepal per visitare le scuole e pulire le montagne, è importante trasmettere l’importanza del rispetto della natura e della loro terra. Contestualmente volevo adoperarmi per la formazione dei giovani della mia comunità e degli altri villaggi nepalesi, desideravo ancora ‘salvare la vita delle persone’, come da piccolo e come avevo fatto durante il mio lavoro da sherpa, riuscendo a portare a casa sani e salvi tutti i clienti che ho avuto. Così abbiamo iniziato a organizzare le iniziative per promuovere l’educazione fino a quando, quattro anni fa, abbiamo incontrato Thule: è stato grazie al suo fondamentale supporto che siamo riusciti a costruire una Fondazione efficace, attiva in tante scuole. Contribuiamo allo sviluppo dell’istruzione sotto diversi fronti, ad esempio abbiamo provvisto ogni studente di un computer: nel mio villaggio d’origine i bambini non ne avevano mai visto uno, quindi lo considero un risultato del quale essere fiero! Inoltre paghiamo gli insegnanti e offriamo il pranzo agli allievi, che spesso percorrono lunghe distanze per andare a lezione. Anche questo è un successo importante perché di solito saltavano il pasto.

Cosa ti rende felice?
Pensare che le prossime generazioni delle comunità nepalesi potranno scegliere di non morire sulle montagne. Non sono andato a scuola, non sono diventato un medico, ma il mio obbiettivo è rimasto lo stesso: ‘salvare la vita’ ai giovani grazie all’educazione