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Caro North e la sua Via Sedna

By Eva Toschi

With Caro North

Sedna è il nome della dea Inuit del mare e degli animali marini. È madre e protettrice del mare, di chi lo attraversa e di chi lo abita. Non poteva essere scelto nome migliore per la spedizione di otto donne verso i fiordi e le pareti della Groenlandia in un viaggio in barca a vela di tre mesi. La scelta di chiamare questa avventura “Via Sedna” è stata fatta per mostrare rispetto e gratitudine verso la natura, l’ambiente e le culture locali.
Via Sedna però è un’avventura iniziata molto prima che le vele gonfie della Northabout hanno lasciato il porto francese di La Rochelle. In un anno le otto donne protagoniste di questa spedizione si sono preparate ad affrontare l’ignoto, innanzitutto stingendo i legami che avrebbero fatto la differenza fra successo e fallimento. L’obiettivo più palpabile era quello di aprire una via su una parete dello Scoresby Sund e, senz’altro, quello di raggiungere questo fiordo navigando a vela. Certo, poi sarebbero anche dovute rientrare a casa, ma a quello ci avrebbero pensato a tempo debito. Abbiamo parlato con Caro North che ci ha raccontato quello che è successo in questo folle viaggio attraverso i mari del nord, Via Sedna.

Com’è tornare alla vita normale dopo tutto questo tempo in barca?

È molto strano. Da un lato lo è perché eravamo otto persone a condividere un piccolissimo spazio, poi perché, nonostante e grazie alla vicinanza, ci siamo trovate molto bene insieme. Adesso essere da sola, in una casa tutta per me, è molto diverso dalla normalità degli ultimi giorni. Ero abituata a essere sempre con le altre e a volte adesso mi sento sola. Ne abbiamo parlato e tutte proviamo gli stessi sentimenti.

Conoscevi già le altre compagne prima di partire?

Diciamo che ho avuto modo di conoscerle nell’anno in cui ci siamo preparate alla partenza. Alcune di noi erano buone amiche, altre si conoscevano da prima ma in modo superficiale. Ma passando tanto tempo insieme per prepararci abbiamo avuto modo di conoscerci a fondo. Costruire le relazioni umane è forse stata la parte più importante di tutti i preparativi. È quello che fa la differenza quando si deve passare tanto tempo insieme in un ambiente molto severo.

Avevi già avuto esperienze in mare?

Sì, una volta sono andata in barca a vela in Antartide ma è stato un viaggio molto più breve, sette giorni di navigazione partendo da Ushuaia. In questo caso ci sono volute invece sei settimane per arrivare in Groenlandia e quattro per tornare. Non ho mai avuto un’esperienza così intensa in mare.

Qual è stata la parte più difficile del navigare per così tanto tempo in un ambiente selvaggio come quello che avete attraversato?

La parte più difficile è essere pazienti. Il meteo cambia in modo repentino e devi essere pronta a cambiare i tuoi programmi e ad aspettare in porto il momento migliore. Abbiamo incontrato brutto tempo spesso e ci abbiamo messo di più del previsto. Ci siamo dovute fermare molte volte. Eravamo intrappolate nel porto ad aspettare, a guardare le previsioni. È molto difficile mentalmente. Per me è stata la cosa più dura: essere paziente e tenere alta la motivazione non sapendo se ce l’avremmo fatta ad arrivare dove volevamo. C’è stato un momento in cui non eravamo così sicure di arrivare in Groenlandia.

Come avete fatto a rimanere allenate durante la navigazione?

È stato certamente difficile rimanere allenate per arrivare in Groenlandia e aprire la via che sognavamo. Avevamo dei piani di allenamento di trazioni, piegamenti, e avevamo una trave con delle prese. Un allenatore mi aveva dato degli esercizi che si potevano fare anche in un piccolissimo spazio e ho scoperto che funzionava, non avevo mai pensato che si potesse allenare la resistenza in così poco spazio. Potevamo allenarci però solo quando la barca non ondeggiava troppo, quindi non abbiamo potuto farlo spesso. Le condizioni del mare erano molto lontane dalla calma piatta. A volte era calmo a mezzanotte e ne approfittavamo come potevamo. Al ritorno, però, non ci siamo mai allenate.

Come eravate organizzate per navigare?

Eravamo tutte quante coinvolte nella navigazione, con turni di due ore presieduti da due persone. Faceva così freddo fuori che dopo due ore volevi solo scappare dentro a riposarsi per 4-5 ore. Con il freddo spesso passava la voglia di allenarsi. L’organizzazione sottocoperta era molto simile: tutte facevamo tutto. Abbiamo cucinato sempre tutte condividendo ricette e gusti.

Com’è partita l’idea di andare a scalare a Scoresby Sund?

Inizialmente avevo visto delle foto che mi hanno incuriosita. Poi mi sono confrontata con degli scalatori inglesi che erano stati lì e mi hanno confermato che la parete che mi affascinava non era vergine. Ho visto le loro foto della parete e non ci è voluto molto altro per convincermi. Avevamo comunque diversi obiettivi in vari posti, perché non sapevamo dove il vento ci avrebbe portate. Questo, infine, ha deciso per noi, spingendoci a Scoresby Sund. Infine è stata la natura ad avere l’ultima parola. 

Come è stato vedere per la prima la parete di roccia dopo tutto quel tempo in mare?

È stato incredibile, un momento di pura gioia, eravamo così contente quando abbiamo attraversato il ghiacciaio e visto che la parete che sognavamo era vera e si ergeva davanti a noi. Ci sono volute sei settimane e non sapevamo se avevamo abbastanza tempo da passare a terra.

Quanto tempo avete passato a terra?

Abbiamo passato solo dieci giorni a terra perché dovevamo partire a metà agosto in quanto a settembre si crea sempre una grande tempesta nel nord dell’Atlantico. Siamo arrivate solo i primi di agosto nel fiordo e avevamo pochissimo tempo per scalare: di dieci giorni tre sono stati di pioggia, e ci sono voluti altri tre giorni per portare il materiale alla base della parte, quindi abbiamo avuto solo tre giorni per scalare.

Dicci di più di “Via Sedna”, la via che avete aperto.

La via è stata impegnativa sin da subito: la parete è molto a strapiombo e compatta e ci siamo mosse molto lentamente per via del terreno. Non c’erano cenge su cui sostare, eravamo sempre appese e anche questo è stato piuttosto stancante. Tuttavia, questo tipo di sfida era quello che ci ha fatto partire in primo luogo. Per un po’, vista la difficoltà, abbiamo avuto timore di non arrivare in cima in tempo. Alla fine della prima giornata abbiamo fissato delle corde e siamo scese alla base per riposare. Qui ci siamo chieste come proseguire: se proseguire in modo fast&light oppure portarci la portaledge. Abbiamo optato per una via di mezzo. Il secondo giorno siamo riuscite ad aprire solo quattro tiri ma abbiamo dormito in cengia. I dubbi a quel punto erano tanti, perché avevamo solo mezza giornata per arrivare in cima. Poi qualcosa si è sbloccato, la parete è diventata più scalabile e siamo andate più veloci, a mezzogiorno del terzo giorno eravamo in vetta. È stato il momento più intenso di tutto il viaggio: dopo tutta quella fatica, dopo tutta l’attesa a bordo della barca, dopo così tanti imprevisti ce l’avevamo fatta. Nessuna di noi poteva crederci. La via l’abbiamo aperta tutta a friend, usando chiodi solo per le calate. Quando abbiamo messo i piedi a terra ha iniziato a piovere.

Cosa senti di aver imparato dalle tue compagne di avventura?

Tutte abbiamo imparato tanto: sicuramente a vivere in barca in otto. Devi essere molto rispettosa e cosciente degli spazi degli altri. Se non ti trovi bene non puoi andare via, devi adattarti alle esigenze altrui. Alla fine però siamo state molto bene insieme. Impari come comportarti, ad ascoltare, ad empatizzare. È stato bello vedere come siamo cresciute come gruppo. Insieme abbiamo imparato ad affrontare l’ignoto.

C’è mai stato un momento critico in cui avete pensato di non farcela?

Sì, diversi. Il primo è stato alle Fær Øer dove siamo rimaste ferme una settimana per il maltempo. Qui ci siamo domandate per la prima volta se avremmo dovuto cambiare obiettivo e andare verso la Norvegia o rimanere in Islanda e scalare lì. Ma ne abbiamo parlato ed eravamo tutte d’accordo di proseguire verso la Groenlandia anche se avessimo avuto solo tre giorni di scalata a disposizione. Eravamo determinate sul rischiare il tutto per tutto. Non è stata una decisione facile. Poi, nonostante la stagione calda, siamo dovute restare ferme dieci giorni ad aspettare che si sciogliessero i ghiacci per navigare. Mentre aspettavamo era attesa una grande tempesta, e in fin dei conti la cosa più importante si è rivelata sopravvivere alla bufera, piuttosto che scalare. Mentre scalavamo, inoltre, abbiamo avuto un guasto al motore e non sapevamo se saremmo riuscite a ripartire.

In che modo la montagna e il mare si assomigliano?

Entrambi sono ambienti dove si è esposti alla forza della natura e dove devi adattarti ad essa. Anche la vita in questi due posti è molto simile: dormi in posti piccoli, ti lavi poco. Navigare è un po’ come fare alpinismo.

Avete mai incontrato animali selvaggi?

In mare abbiamo visto balene e delfini che nella notte brillavano per il plankton di cui si nutrono. Abbiamo visto due orsi polari: uno dalla barca e uno che è venuto al nostro campo base a terra. Noi stavamo bevendo un caffè sulla spiaggia e a cinquanta metri da noi abbiamo visto l’orso polare uscire dall’acqua e guardarci: era enorme. Io ero girata dall’altra parte ma ho visto il viso della mia amica ed ho subito capito cosa stava succedendo. I fucili erano in tenda, lontano da noi. Ci siamo guardate reciprocamente per tanto tempo perché non sapevamo cosa fare. La mia amica allora ha urlato e l’orso ha avuto paura e se ne è andato. È andata bene così perché in questo modo nessuno, né l’orso né noi, è stato ferito. Comunque quando è andato via ancora tremavamo, è stato un momento davvero intenso.

Quali sono state le tue emozioni durante il viaggio di ritorno?

Mi sono goduta molto di più il ritorno, perché durante l’andata i miei pensieri erano rivolti verso l’ignoto, gli imprevisti, e sentivo molta pressione. È stato difficile rimanere positiva e motivata in certi momenti. Nel viaggio di ritorno mi sono goduta la navigazione: avevamo fatto quello che desideravamo e mi sentivo sollevata. Comunque gli imprevisti ci sono stati anche in questo frangente: siamo dovute stare una settimana in Islanda non sapendo se saremmo riuscite a tornare in Francia. Poi il meteo è migliorato e abbiamo navigato dodici giorni di seguito. Mi sono sentita bene in quei giorni consecutivi in mare. Quando siamo arrivate a due giorni dalla nostra destinazione abbiamo dovuto aspettare altri cinque giorni per il maltempo. Quello è stato un momento molto frustrante perché eravamo già proiettate con la mente a casa.

Com’è stato salutare le tue compagne?

L’ultimo giorno di navigazione è stato molto difficile a causa del maltempo, eravamo molto concentrate. Ma quando siamo arrivate a La Rochelle e ci siamo rese conto che la nostra avventura insieme stava volgendo al termine e presto avremmo dovuto salutarci ci siamo subito rattristate. Abbiamo fatto festa l’ultima sera per allentare la pressione di tre mesi in barca insieme. Poi la maggior parte di noi ha pianto. Abbiamo costruito qualcosa di potente insieme.

Cosa volete comunicare attraverso questa esperienza?

Quello che vorremo davvero condividere è che se vuoi fare qualcosa puoi farla. Nessuno avrebbe pensato che ce l’avremmo fatta con un team di sole donne perché sia la barca a vela che l’alpinismo sono ambienti dominati dagli uomini. Noi sentivamo che non era così, che ce l’avremmo fatta, e questo ha fatto la differenza. Quando siamo tornate in Francia molti ci dicevano “otto donne in barca, chissà quanto avrete litigato” ma in realtà non è mai successo, siamo state molto bene tra di noi. È triste come nella società si pensi che se tante donne insieme finiscano necessariamente per litigare. Noi eravamo molto attente alle altre, abbiamo parlato di emozioni e ci siamo rispettate e questo ha creato un ambiente positivo. Vorrei comunicare che si può fare quello che si vuole e divertirsi al tempo stesso, anche quando le condizioni sono difficili. E che per alcune cose devi prenderti del tempo ed essere paziente, anche se è la cosa più difficile del mondo.