Image Alt

Dani Arnold: ritrovare il gusto dell’avventura in Kazakistan

L’uomo dei record è andato a scovare la montagna sconosciuta per eccellenza per ritrovare il gusto dell’avventura: la spedizione nameless di Dani Arnold in Kazakistan

Un’ora, 43 minuti e 35 secondi per salire in solitaria la parete nord del Petit Dru nel massiccio del Monte Bianco dalla via Allain-Leininger, 2 ore e 28 minuti per salire la via Heckmair sulla parete Nord dell’Eiger, 1 ora e 46 minuti per salire sul Cervino, 2 ore e 4 minuti per scalare la via Cassin, 2 ore e 4 minuti per completare la parete nord del Grandes Jorasses: Dani Arnold è uno che spinge forte. Svizzero, guida alpina, le montagne nel Dna, è uno che ama le sfide, ama i record e ama il free solo: Torre Trieste, Pizzo Badile e la Cima Grande di Lavaredo salita in 46 minuti e 30 secondi i suoi capolavori. Se sei un alpinista dopotutto la tentazione di mettere tacche qua e là, dimostrare che sei il più veloce o il più forte, ti viene per forza, ma Dani Arnold ama anche esplorare, trovare vie dove nessuno le va a cercare, cimentarsi con la difficoltà di posti inesplorati sui quali si hanno poche informazioni in generale e alpinistiche in particolare. È uno che guarda tanto alla forma quanto alla sostanza. La sua ultima missione, che lo ha portato in Kazakistan, è stata guidata da una foto: neve bianca su terra rossa, una parete che sembra frutto dell’ingegno di un pittore e delle forme così bizzarre da stuzzicare la sua voglia di scoperta, di solleticare la curiosità di chi ogni vetta la guarda in modo diverso rispetto a come farebbero tutti gli altri. Un posto talmente bello e remoto non può rimanere inesplorato, quelle cime così poetiche intentate: è così che prendono vita le missioni alla Arnold maniera, alpinista magnetico che sta radunando intorno a sé una community sempre più nutrita di seguaci appassionati, ma che non si fa illusioni sulle platee virtuali. Il racconto di questa esperienza è soprattutto il racconto di un alpinista che, con la sua crew più fidata, è andato dritto al cuore della spedizione, senza sentire la necessità di piantare bandierine, o intestarsi la paternità di una via. 

Lo raggiungo al telefono in Svizzera, dove lavora e vive con la sua famiglia «Come stai?» «Fa troppo caldo». È curioso come questo incipit sia stato il leitmotiv di quasi tutte le interviste di questa estate. D’altra parte gli alpinisti, le guide alpine e in generale gli atleti di montagna sono sensibili più di altri alle tematiche ambientali perché la loro vita li porta ad osservare da vicino il disfacimento dei nostri inverni, l’arretramento inesorabile dei ghiacciai. «Lo zero termico quest’estate è stato registrato sopra i 5000 metri: questo è un dato tremendo per l’ambiente. Non me ne lamento solo perché questo rende più difficile praticare la mia passione, ovvero l’ice climbing, ma perché siamo sull’orlo del baratro. Alle persone fa piacere non avere temperature così rigide qui, però la verità è che è un dramma per il nostro pianeta».

Veniamo alla tua spedizione più recente, il Kazakistan. Destinazione che avevi nel cassetto da un po’…

Direi che con questo viaggio abbiamo portato a un livello superiore quello che avevamo fatto in Giappone, ovvero una spedizione guidata dallo spirito di avventura: l’idea dietro questi progetti è quella di trovare qualcosa di affascinante e sconosciuto, fuori dagli itinerari più battuti e allo stesso tempo riportare in una missione lo spirito degli avventurieri. Quando parto per battere un record di velocità, o se affronto una via in free solo, ho delle enormi soddisfazioni, ma viene meno lo spirito di avventura: lì sono alla ricerca della velocità o della difficoltà, ma sono vette di cui si sa praticamente tutto, delle vette del Kazakistan non si sa quasi nulla. Grazie al mio lavoro sono stato quasi ovunque nel mondo e, anche posti remoti come la Patagonia, per me ormai non lo sono più di tanto. Ci sono stato undici volte ed è sempre un posto speciale, ma andarci non rappresenta più un’avventura per me.

 “L’idea dietro questi progetti è quella di trovare qualcosa di affascinante e sconosciuto, fuori dagli itinerari più battuti e allo stesso tempo riportare in una missione lo spirito degli avventurieri”

Velocità, free solo o spedizioni esplorative, qual è l’anima del Dani alpinista che ti rispecchia di più?

L’ice climbing! In pochi lo sanno, ma il mio primo free solo in assoluto è stato sul ghiaccio, in uno spot vicino casa, a Brunnital, è partito tutto da lì e il ghiaccio rimane la mia passione principale, quello che mi fa scalpitare più di ogni altra cosa. 

Partiamo dai punti fermi, come si chiama la montagna che avete scalato in Kazakistan? 

A dire la verità non credo che abbia un nome, non era mai stata scalata prima e, ad essere onesti, è partito tutto da una foto. Ci incuriosiva la sua forma e così siamo partiti, ma sapevamo poco o nulla di cosa realmente ci saremmo trovati davanti una volta lì.

Però, dal momento che avete aperto una via, non l’avete battezzata? 

In realtà no, puoi sceglierlo tu il nome se vuoi (ride). In linea teorica quando apri una via poi ti spetta anche darle un nome certo, ma non era questo il punto della spedizione. Noi siamo andati fin là per l’esperienza in sé e perché basta guardare le immagini per rendersi conto di quanto quella vetta fosse speciale e ci chiamasse. 

Vetta speciale e poche informazioni, è andato tutto liscio?

Abbiamo arrampicato moltissimo, ma il problema principale è stato, appunto per il fatto che non ci sono molte informazioni, che la qualità della roccia non era quella che ci aspettavamo, era molto morbida e la parete molto ripida. Non abbiamo praticamente usato protezioni, per via della qualità della roccia, cosa che nella parte più bassa era ok, ma man mano che ci siamo avvicinati alla cima ha trasformato la cosa in qualcosa di molto vicino a un free solo. Credo comunque che il rischio maggiore in questo genere di situazioni sia tornare a casa con un nulla di fatto, ma d’altra parte se non provi non lo puoi sapere: certo è che meno informazioni hai in partenza, riguardo all’attrezzatura da portare e a cosa potresti andare incontro, e più è difficile portare a casa il risultato. Una cosa che indubbiamente fa la differenza è avere un team coeso come il nostro, composto da Martin Echser e dal fotografo Thomas Monsorno.

Con Thomas ormai lavorate insieme da molto tempo, siete un team collaudato…

Direi soprattutto che siamo amici. Io ho un obiettivo alpinistico e lui fotografico, sicuramente lavoriamo duro per raggiungerlo, io scalando e lui cercando l’inquadratura migliore, il momento perfetto per scattare, però ci interessa anche divertirci insieme senza avere la pressione del lavoro. È più un “andiamo là e vediamo cosa portiamo a casa”. 

Proprio mentre eri in Kazakistan il tuo profilo Instagram ha sfondato la barriera dei 100 K, e adesso sei già a 171, come ti rapporti con una community sempre crescente?

Diciamo che è qualcosa che devi fare anche in rapporto alla professione perché ti dà l’opportunità di raggiungere veramente tantissime persone, però non riesco a togliermi dalla testa che per me sia solo un gioco, e che non abbia nulla a che vedere con l’andare in montagna seriamente. Su Instagram c’è un sacco di showoff anche perché di base è quello che il pubblico vuole. Per me ci sono due tipi di community: una più piccola e seria, interessata ai dettagli delle spedizioni, a cui non interessano i Reel, ma vogliono piuttosto sapere tutto della via o della missione, dall’attrezzatura, alle temperature alle difficoltà e se nel secondo tiro ti sei aggrappato con la mano destra o sinistra. E poi c’è la community vastissima di Instagram a cui di come hai affrontato il secondo tiro non frega niente, ma si esaltano nel sapere se ti si era ghiacciato il sandwich o se ti è volata di sotto la banana. La cosa più challenging per me è riuscire ad accontentare entrambe queste platee. 

D’altra parte però estendere la tua community ti dà la possibilità di far arrivare a più persone messaggi che ti stanno a cuore, come ad esempio i tuoi pensieri sull’ambiente…

Questo io credo sia vero fino a un certo punto: tempo fa ho fatto un post sull’etica dell’alpinismo: niente foto o video, solo testo. Ecco, quel post ha avuto veramente poche reazioni, ma se metto una mia foto senza T-shirt fa il botto, non solo, prendo molti più like rispetto a mettere la stessa foto, ma con la maglietta indosso.