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Federico Ravassard Photographer

Interview: Denis Piccolo

Photos: Federico Ravassard

23 anni, italiano ma di cognome francese, Federico rappresenta una nuova figura di fotografo dell’outdoor moderno. Lui stesso si definisce fotografo, ma è anche storyteller, avventuriero, un ottimo alpinista e sciatore. Dice che in lui prima è nata la passione per la fotografia, poi quella per l’arrampicata e la montagna, e fortunatamente hanno finito per abbracciarsi spontaneamente. Ama sperimentare, è ironico, si diverte con quello che fa. Sì, si diverte, sembra scontato ma non lo è.

Federico, siamo al bancone del bar, non ti conosco, parlami di te.

Ciao! Questa è una domanda alla quale non so mai tanto come rispondere. Grossomodo mi piace dire che per lavoro “vado in giro”, scatto fotografie, scrivo, scalo, scio, tutte quelle cose lì. E nel tempo libero faccio lo stesso! 

Quando hai incontrato la fotografia?

Se devo pensare a un momento preciso mi viene in mente un viaggio fatto con la mia famiglia nei parchi della costa ovest degli Stati Uniti. Mi era appena stata regalata una compatta digitale per la terza media, e in quei luoghi così incredibili ottenere una buona foto non era poi così difficile. Ecco, forse quello è stata la scintilla che ha acceso questa passione.

È arrivata prima la passione per la fotografia o quella per la montagna?

Durante il liceo stavo cominciando ad appassionarmi seriamente alla fotografia, e ogni tanto ci scappava qualche lavoretto alle feste degli amici in discoteca. Ero in quella fase in cui uno scatta veramente qualsiasi cosa, senza sapere bene dove andare a parare. Ritratti, paesaggi, goffi tentativi di street. Poi ho smesso di praticare tennis e sci alpino per darmi all’arrampicata e allo sci alpinismo, e poco alla volta le due cose – la montagna e la fotografia – si sono incontrate e sono diventate indissolubili. Ad oggi, andare su roccia o su neve senza scattare almeno una foto, anche solo con lo smartphone, mi sembra un peccato terribile.

Che emozioni ti regalano la montagna e la natura in generale? 

Tantissime. A volte ci sono la magia sfuggente dei tramonti e delle albe, altre invece il piacere di fare fatica in escursioni molto lunghe. Oppure la sorpresa di trovare posti meravigliosi nei quali non ero mai stato, o la meraviglia di quando incontro condizioni nevose eccezionali o una roccia particolare. Poi, un elemento imprescindibile per me, è la bellezza delle persone che la frequentano: in montagna incontri davvero tantissime persone che, nonostante siano legate da una passione comune, su tutto il resto possono essere molto diverse tra di loro, ma tutte sempre molto aperte e interessanti. 

“A volte ci sono la magia sfuggente dei tramonti e delle albe, altre invece il piacere di fare fatica in escursioni molto lunghe. Oppure la sorpresa di trovare posti meravigliosi nei quali non ero mai stato, o la meraviglia di quando incontro condizioni nevose eccezionali o una roccia particolare. Poi, un elemento imprescindibile per me, è la bellezza delle persone che la frequentano: in montagna incontri davvero tantissime persone che, nonostante siano legate da una passione comune, su tutto il resto possono essere molto diverse tra di loro, ma tutte sempre molto aperte e interessanti.”

Quanto è importate per un fotografo di outdoor sapersi muovere bene in montagna?

Mi piace molto andare in montagna per conto mio, quindi alla fine ho un livello abbastanza buono un po’ in tutto. Credo sia molto importante sapersela cavare autonomamente, sia perché in questo modo ci si può concentrare di più sulla parte fotografica, sia perché questo crea un buon rapporto con i soggetti con cui scattare. Il fotografo dovrebbe essere prima di tutto un buon compagno, non un peso per la riuscita dell’escursione. 

Sei molto giovane, non hai vissuto il periodo pellicola, sviluppo e stampa. Però ogni tanto scatti a pellicola. Qual è il motivo? Fa figo o c’è qualcosa di più profondo?

Oltre alla resa cromatica della pellicola, che adoro, lo trovo un modo molto sincero di scattare: non puoi contare troppo sulla post produzione, e nemmeno sulla raffica, mentre oggi sembra che la combo “scatto un sacco di foto + le massacro di filtri” sembri essere la chiave per spaccare. Allo stesso tempo, lo trovo disintossicante: lavoro ogni mese su migliaia di raw, che poi finiscono chissà dove in fondo all’hard disk. Con la pellicola, invece, posso concentrarmi su 24, o al massimo 36 fotografie, poche ma buone, insomma. Essendo così poche, rispetto al digitale, dai loro molto più valore e le riguardi con piacere. E poi scatto in analogico anche perché mi piace un sacco l’idea di avere una testimonianza fisica del mio lavoro, anziché un file virtuale.

Recentemente hai fatto dei viaggi incredibili, mi parli velocemente di dove sei stato?

Quest’anno sono stato un mese in Perù dove, con Enrico Mosetti e Davide Limongi, due amici friulani (e super sciatori), abbiamo provato a sciare alcune cime poco conosciute nella zona di Cuzco. È stata la mia prima spedizione nel senso proprio del termine, dove abbiamo avuto a che fare con pochissime informazioni dei luoghi e con quote superiori ai 5000 metri. È stata decisamente una bella esperienza. Poi, in mezzo, ci sono fughe continue per scalare e sciare. Ho bazzicato la Spagna, parecchie zone delle Alpi Occidentali e qualche capatina su quelle orientali, un po’ di Italia, anche se poi tra i posti che preferisco ci sono due zone relativamente vicine a casa: la Valle dell’Orco e il massicci degli Ecrins, entrambi molto selvaggi e meno frequentati rispetto a montagne meno blasonate come il Monte Bianco e le Dolomiti.

Invece dove andrai nel prossimo futuro?

Di sicuro andrò a fine febbraio nella zona più settentrionale della Norvegia, a sciare e a fotografare. Poi, chissà. Ogni tanto vado a guardarmi articoli su Caucaso e paesi balcanici, vedremo!

Cosa c’è dentro il tuo zaino quando fotografi in montagna?

Dipende da cosa sto andando a scattare. A volte ho troppo materiale alpinistico per potermi permettere il lusso di obiettivi extra e zaini pesanti; altre volte, invece, se l’escursione è semplice posso portarmi un sacco di vetro in più sulla schiena. Di sicuro non mancano mai vestiti extra, guanti leggeri, almeno una batteria e qualcosa da sgranocchiare. 

Da che fonte trai ispirazione per i tuoi scatti e per il tuo stile?

Le fonti di ispirazione sono molte. Instagram è una di queste, anche se va preso a piccole dosi perché alla lunga ci abitua ad un’estetica molto omogeneizzata, in cui variano solo ogni tanto le tendenze. Basti pensare alla classica immagine del Lago di Braies, per me quella cosa lì è la morte della ricerca fotografica. Per il resto, vado il più possibile a mostre e cerco di leggere libri sul tema, mi piacciono molto le interviste ai singoli autori. Credo che in generale ci si debba sforzare a osservare e masticare più fotografie possibili, di generi anche diversi tra loro.

Chi sono i tuoi fotografi preferiti?

Ce ne sono tanti. Alcuni di loro sono quelli riescono a spostarsi dall’ambito sportivo a quello più documentaristico, come Jonas Bendiksen o Christoph Jorda. Mi piace chi scatta pulito: fotografie semplici nella forma e nella post produzione, ma allo stesso tempo piene di messaggi dentro. Nel mondo outdoor tre che mi piacciono molto da questo punto di vista sono Jeff Johnson, Alex  Strohl e Sterling Lorence. Poi ci sono altri fotografi che all’apparenza non hanno nulla a che fare con quello che faccio io, dei quali cerco di studiare lo stile per applicarlo in altri ambiti. Tutta la banda Magnum (Koudelka, Goldberg, Majoli e tantissimi altri in gamba), e altri che lavorano su generi molto particolari: per farti un esempio, adoro la fotografia subacquea di Anuar Patjane, i ritratti femminili di Tim Swallow e i paesaggi di Reuben Wu. 

“Per me è importante che in uno scatto esca in modo chiaro un fatto o un’emozione, altrimenti quello che otteniamo non è una fotografia, ma solo una bella cartolina. Allo stesso modo, preferisco lavoro su progetti di tipo giornalistico e documentaristico piuttosto che sul commerciale fine a se stesso. Trovando la giusta leva, un’azione che ha che fare con la sensibilità dell’osservatore, emergono tantissimi tasselli di storie che meritano di essere messi al loro posto per essere raccontati.”

Sei un ottimo storyteller. Quanto è importante oltre a saper scattare anche raccontare una storia?

Per me è importante che in uno scatto esca in modo chiaro un fatto o un’emozione, altrimenti quello che otteniamo non è una fotografia, ma solo una bella cartolina. Allo stesso modo, preferisco lavoro su progetti di tipo giornalistico e documentaristico piuttosto che sul commerciale fine a se stesso. Trovando la giusta leva, un’azione che ha che fare con la sensibilità dell’osservatore, emergono tantissimi tasselli di storie che meritano di essere messi al loro posto per essere raccontati. Ho studiato Transmedia and Digital Storytelling alla Scuola Holden di Torino e, sebbene in apparenza con la fotografia non sembri avere molto a che fare, credo che mi sia stata utile per capire meglio il valore e le regole di certi linguaggi, che ormai in un mondo iperconnesso con i social non possono essere trascurati.

C’è una forte corrente di giovani fotografi nel mondo outdoor, come spieghi queste tendenza?

Credo che questa crescita sia dovuta, in parte, al boom delle discipline outdoor in generale, ma anche ai social network: ad esempio, su Instagram certi generi fotografici sono stati democratizzati e fatti conoscere alla massa, basti pensare al lavoro di Chris Burkard, un fotografo che fino a qualche anno fa avrebbero conosciuto solo gli appassionati disposti a comprare una rivista cartacea.  Allo stesso modo, con il digitale è oggettivamente più facile riuscire a crescere velocemente sul piano tecnico, là dove con l’analogico sarebbero stati necessari anni di pratica. Ora se un ragazzo è appassionato riesce ad ottenere buoni risultati nel giro di poco tempo. 

Percepisci una sensazione differente quanto vedi una tua foto in un canale digital invece che quando la vedi stampata su una rivista o su carta fotografica?

La sensazione (positiva o neutra, negativa solo quando la foto viene pubblicata senza il mio consenso) dipende più che altro da chi viene pubblicata e in che ambito. Normalmente mi gratifica di più vederla stampata sulla carta di una rivista o di un quotidiano nazionale, ma anche apparire sui canali digital di brand e testate prestigiose, delle quali condivido magari i gusti in tema di editing, è una bella soddisfazione. L’anno scorso un mio scatto di sci era stato condiviso da National Geographic su Instagram: certo, non è come il cartaceo, ma sapendo quanto sono stretti i loro criteri di selezione mi ha davvero fatto piacere. 

Credo che entrambi, digitale e carta siano eterni, ma in modo diverso. Un’immagine in digitale sarà per sempre in rete, dispersa tra migliaia di link. Su carta sarà per sempre su un supporto reale, dispersa da qualche parte nel mondo, chissà dove, chissà chi in mano arriverà. Tu cosa ne pensi?

Con il digitale possiamo arrivare facilmente a raggiungere decine di migliaia di persone, ma non sempre si tratta di utenti in grado di apprezzare il nostro lavoro appieno. Sulla carta, invece, possiamo essere sicuri di arrivare ad un pubblico minore ma sicuramente più attento. Preferisco quest’ultima!

Cosa farai domani?

In questi giorni sono in giro in Trentino per seguire il circuito della Coppa del Mondo di sci alpino per una rivista specializzata. Dopo tanti giorni al freddo (a proposito: nonostante quello che si possa pensare, sono un tipo freddoloso), domani mi godrò un giorno a casa in pantofole, che in fondo non è così male. 

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