Francesco Ratti in Valtournanche

Francesco Ratti. Una cresta infinita.

Francesco Ratti. Una cresta infinita.

Quella sera a cena non parlammo molto di alpinismo, sembravamo ignorare che la montagna più affascinante delle Alpi fosse lì a guardarci, al di là del vetro sottile delle finestre. Mangiavamo pane e formaggio a testa bassa, quasi a volerla infilare nel piatto. Come quando una bella donna entra in una sala gremita: pare indecoroso stare lì a fissarla, ed è più facile abbassare il mento. Un po’ per rispetto, ma più per timore. L’appuntamento era per le otto e trenta in un ristorante di Valtournenche di cui non ricordo il nome. Francesco era in ritardo. Quando arrivò scese dall’auto con sua moglie e allungò la mano verso la mia, la presa era solida, la stretta decisa. La pelle sembrava corteccia secca, e le nocche gonfie facevano somigliare le dita a delle tozze canne di bambù. Alzai involontariamente lo sguardo poco sopra la sua testa, un triangolo di roccia con la punta mozzata ci guardava. Tutt’intorno un cielo scuro e qualche stella illuminava la neve appesa alle pendenze possibili. La stretta di mano della moglie era più gentile, ma sapeva di montagna. Durante la cena parlammo di alpeggi e di tome, di turismo, di clima e di ambiente. Valori seri difesi con fermezza, ma ancora niente alpinismo. Ordinammo il caffè e ancora non sapevo cosa avremmo fatto l’indomani.

Presi coraggio: “A che ora domattina?”
“7:30 alla biglietteria.”

Informazioni scarne.

“Cosa porto?”
“Casco, imbrago, pelli, daisy chain, due ghiera, un discensore e un paio di cordini, se li hai.”
“Ho tutto.”
“Magari iniziamo col Breithorn, saliamo con le pelli dal Plateau. Poi vediamo.”
“Va bene.” risposi senza fare altre domande.

Bevemmo un Genepì del posto, salutammo una grande tavolata vicino al bancone del bar e uscimmo dal locale. In quel momento nessuno gli dava le spalle, la parete sud del Cervino, insieme a quella delle Grandes Murailles, era ora un muro bianco e altissimo davanti alle nostre facce. Un silenzio tombale, sembrava di essere in Himalaya in quelle notti in cui la luna è più grande e il cielo più vicino. Nell’oscurità notai la sagoma di una cresta infinita, che correva nel buio senza interruzioni fino a scomparire alla mia sinistra, dietro i larici scuri. Sapevo tutto dell’impresa del 2020 di Francesco e François: erano stati i primi a concatenare, in pieno inverno, la cresta Furggen, il Cervino, le Grandes e le Petites Murailles.
Sapevo dei tre tentativi degli anni precedenti, dei -23°C alla partenza dal Colle del Teodulo, sapevo persino a cosa si riferivano quando parlavano della “fossa dei leoni”. Sapevo tutto eppure non sapevo nulla. Guardavo immobile quella linea nella notte e mi chiedevo come doveva essere, la stessa scena, a prospettiva invertita. M’immaginavo i due alpinisti avvolti nell’ombra, rimboccati nei sacchi a pelo, che ricambiavano il mio sguardo lontano.

Cosa voleva dire con “poi vediamo”? Cosa aveva in mente Francesco? Quella sera mi addormentai con quel pensiero.

La sveglia suonò alle sei e trenta. Anche dal tavolo della colazione la parete della montagna ti avvolgeva, ricurva su di te. Come se la vetta non volesse smettere di muoversi, di crescere. Un tazzone di yogurt e cereali e un caffè nero prima di iniziare la giornata. La domanda della sera prima, mentre cercavo di individuare la Capanna Carrel tra la Testa del Leone e il Pic Tyndall, era più insistente. Non mi dispiaceva l’idea di sciare sul Breithorn, ma io volevo toccare la roccia del Cervino. Alla biglietteria cercavo una giacca rossa, sapevo che Francesco, parte della storica Società Guide del Cervino, vestiva Millet. Era perfettamente a suo agio nei panni di quei pionieri che con lo zaino simile al suo salirono l’Annapurna nel 1950. Che con quello stesso marchio aprirono gli orizzonti dell’alpinismo. Ci salutammo come due che hanno condiviso il tempo di una bourguignonne e salimmo sulla funivia che porta a Plateau Rosà. Tempo bello e poche parole, la giornata era iniziata.

La salita al Breithorn Occidentale è una scialpinistica in quota senza particolari difficoltà. La cima, vista dal Piccolo Cervino, è una cupola di neve appoggiata su un seracco sospeso a strapiombo sul versante svizzero. Quel giorno il caldo seccava la gola e appesantiva il passo, ma considerato il peso degli zaini tenemmo un buon ritmo. Volevo sapere cosa si provasse a camminare soli su quella linea sottile, in equilibrio tra Italia e Svizzera. Lassù, esposti.

La presi larga: “Quindi tu non sei originario di Cervinia?”
“No, vengo da Lecco.”
“E come mai sei venuto proprio qui?”
“Nel 2015 ho deciso di trasformare la mia passione in un lavoro e pochi posti offrono quello che offre il Cervino.”

Una traccia ben visibile attraversava il pendio pianeggiante che collega il Piccolo Cervino alla base della salita. Dopo un paio di inversioni, quando la pendenza diventa importante, il Matterhorn. Ora si vedeva per intero, più grosso, più alto. La metà di una piramide con due facce e tre spigoli, la parete sud, la est, la cresta di Furggen, che le separa nel mezzo, e ancora la cresta De Amicis e la cresta dell’Hörnli.
Davanti a me Francesco, anche lui lassù pareva diverso. Più leggero. Mi fermai per guardarlo meglio: una figura sottile, con testa incappucciata e mento sprofondato nel collo della giacca rossa, saliva spedita.
Con l’umiltà di chi, davanti a un’opera grande, procede a testa bassa. Me lo immaginai su quella cresta rocciosa, una minuscola sagoma lontana. E mi accorsi in quel momento, che i corpi di donne e uomini che scalano montagne, visti dal basso, non sono altro che microscopi puntini invisibili. Sospesi in un’altra dimensione. Corpi bellissimi privi di materia, quasi non esistessero.

“Com’è stato collegarle tutte?” gli domandai prima di raggiungere la cresta verso la cima.
“La mia vita è tutta qui, per me sono le montagne di casa. È stata piuttosto dura, ma è stato un traguardo importante.”

Capii presto che Francesco Ratti è un uomo silenzioso. Un alpinista vero, che va in montagna per il più semplice dei motivi: perché ama farlo. Senza vanto né competizione, se non con sé stesso. Uno che non ha ceduto a quella bastarda tentazione che induce a parlare prima di fare. Francesco fa e, casomai, dopo, racconta. Più probabilmente, però, ti porta a fare una bella uscita in montagna, ha capito che può essere più utile per tutti. E visto che parlò poco ve lo racconto io cosa fece, di preciso, nell’inverno del 2020. Dal 20 al 23 gennaio, insieme all’amico François Cazzanelli percorse, nelle giornate più fredde dell’anno, la cresta di proporzioni himalayane che unisce le 20 vette che affacciano su Valtournenche. 51 chilometri di strapiombi, altezze estreme e passaggi vertiginosi. 4800 metri di dislivello positivo. Una cresta infinita.

Intanto lassù, noi altri, eravamo sulla sommità della cupola bianca. Il caldo aveva lasciato posto a gelide raffiche di vento. Sulla cima non restammo più di qualche minuto. Io mi sporsi per guardare giù, sul versante svizzero, le crepe profonde del ghiacciaio. Francesco si raccomandò di fare attenzione e mi indicò la strada verso casa.

“La vedi là dietro? Dietro il Lyskamm? C’è la Capanna Margherita.”
La vedevo. Li vedevo quasi tutti, da lassù, i Quattromila del Rosa.

Non era neanche mezzogiorno e stavamo sciando sul Breithorn, qualche decina di metri sopra quel seracco sospeso, eravamo minuscoli puntini invisibili. Sulla via del rientro, al riparo dal vento, faceva di nuovo caldo e la borraccia era già vuota da un po’.

“Salgono altri ragazzi da Cervinia, altre guide, ti va di salire il Piccolo Cervino con noi? Facciamo una via semplice.” mi chiese mentre toglievamo le pelli agli sci.
“Guarda che non sono un’alpinista.” risposi.
“È davvero semplice, fidati.” ribatté.

Poco dopo eravamo legati alla stessa corda, le gambe spalancate su un diedro aperto e le mani su una roccia rossa, rotta e bellissima. Stavamo scalando il Piccolo Cervino per la Via dei Professori, un’arrampicata in quota di 240 metri di sviluppo con difficoltà mai oltre il V grado.

“Cosa pensi del futuro dell’alpinismo? Visto le gravi ripercussioni che i cambiamenti climatici stanno avendo sulla montagna.” chiesi raggiunta la prima sosta.
“Penso che sarà fondamentale trovare vie alternative per portare avanti la nostra professione di alpinisti e di guide alpine. Esplorando nuovi terreni, nuove quote, magari con attività diverse. L’adattamento, come da sempre nella storia dell’uomo, sarà la chiave.”

La ricordo come una giornata ricca. E scalando capii cosa intendessero, i libri, quando parlavano di “roccia marcia”. Alcuni appigli erano ottimi, tolto il fatto che ti restavano in mano. Muri di lame verticali luccicavano al sole e ogni movimento, ogni suono, era naturale e lieve.

Sono in tanti a voler sapere perché gli alpinisti scelgano di fare gli alpinisti. Io non ne so molto, ma posso dirvi che scalando con Francesco, immersi in quel mondo instabile, mi sono sentita più salda che mai.
Ci si sente leggeri a essere nessuno, seppur nel tempo di una scalata in montagna.

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