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Henri Aymonod: l’approccio fa la differenza

Henri nasce in Valle d’Aosta. Il contesto alpino in cui vive ha plasmato la sua persona, le sue scelte e la sua passione per la natura, l’outdoor e soprattutto le montagne. Ha due fratelli gemelli: fin da piccolo sono stati fondamentali per la sua crescita, anche sportiva. Sono loro ad avere acceso la sua voglia di sfida e di competizione. I giochi che facevano da ragazzini li portavano a superare i propri limiti e a scoprire insieme l’ambiente circostante. Ognuno ha preso poi la propria strada: Henri ha scelto lo sport e ora, anche grazie a The North Face, è riuscito a fare della sua passione un lavoro.

Qual è il legame con la tua terra?
È stato facile e naturale approcciarmi alla montagna con curiosità e spirito di esplorazione. Vivo in una piccola valle del Gran Paradiso, la Valle di Rhemes, e qui ho mosso i miei primi passi. Ora che sono più indipendente ho iniziato a girare per tutta la Valle d’Aosta e a scoprirne ogni angolo. Per me la Valle d’Aosta rappresenta anche una palestra che mi permette di sviluppare un background di esperienze e conoscenze che poi mi saranno utili in qualsiasi contesto deciderò di intraprendere i miei progetti. In questo The North Face mi dà una grande mano e mi permette di sognare in grande.

Che tipo di atleta sei? Come ti definiresti oltre all’epiteto con cui sei famoso, hombre vertical?
Dal mio punto di vista si tratta sempre di adattamenti. Da piccolo volevo sempre cercare la strada più diretta possibile per raggiungere un determinato punto, una cima, un lago alpino, anche se questo richiedeva di tagliare il sentiero. Credo che questi adattamenti sviluppati da piccolo si siano poi rivelati utili anche nel contesto agonistico. In realtà mi sono approcciato abbastanza tardi al mondo delle gare di alto livello, prima le sfide si svolgevano principalmente in famiglia, con i miei fratelli. È stato dopo le mie prime esperienze a livello nazionale e internazionale, nel 2014, che ho conosciuto davvero il mondo della corsa in montagna e ho sviluppato la mia passione per questo ambiente e per ciò che è l’allenamento in funzione di una performance.

Hai uno stile di corsa ben riconoscibile, alcune certezze e sicurezze che ti rendono unico come atleta. Quanto è importante la contaminazione della preparazione? Come trovi l’equilibrio in questo?
Io penso che le diverse teorie di allenamento vengano costantemente validate, poi smentite e infine superate. Ritengo che la cosa più importante sia fare esperienze, dare stimoli diversi al proprio corpo, mettersi in difficoltà in modo da non abituare l’organismo sempre agli stessi sforzi, proprio per uscire dalla comfort zone e riuscire a superare i nostri limiti: soprattutto ciò in cui ci si sente più vulnerabili. Credo che per crescere come atleta sia indispensabile avere questo tipo di mentalità: sapersi mettere in gioco anche in qualcosa che non ci è strettamente congeniale.

Qual è il tuo modo per crescere, l’approccio che vorresti seguire?
Sono convinto di avere dei grossi margini di miglioramento sulla corsa pura, e che quindi debba mettermi alla prova soprattutto in pianura. Credo che questo, attualmente, sia il mio principale punto debole, considerato che vengo dal mondo degli sport outdoor di montagna e che pratico tanto scialpinismo d’inverno. Un consiglio che potrei dare ad altri atleti che invece provengono dalle specialità classiche dell’atletica, come il mezzofondo o la maratona, è quello di mettersi alla prova in contesti dove più si trovano in difficoltà: salite e discese ripide e terreni tecnici.

Spesso si tende a considerare l’attività sportiva come un sacrificio che un atleta deve fare per raggiungere determinati risultati. Per me non è esattamente così, nel senso che non faccio alcun sacrificio per correre: semmai a volte è la corsa a dover essere sacrificata per altre attività e impegni. Correre per me è quasi sempre il momento più felice della giornata e quello intorno a cui orbita il mio tempo. È così anche per te o la vedi in un altro modo?
La vedo allo stesso modo. La corsa in montagna è la mia più grande passione e ho un bel rapporto sia con le gare che con gli allenamenti. È chiaro che ci sono periodi in cui anche per me non è sempre facile rimanere focalizzato sugli obiettivi, e gli stimoli per allenarmi bene possono venire a mancare. Nel mio caso la motivazione deriva dagli appuntamenti agonistici, dal confronto tecnico e dalla possibilità di vivere nuove esperienze. È una cosa non dimentico mai, semplicemente la sento dentro.

Cosa significa per te rappresentare un brand come TNF?
Mi sento fortunato a rappresentare un brand come The North Face perché la sua filosofia e la sua mission si sposano perfettamente con il tipo di atleta e di persona che sono. È del tutto naturale, viste le mie affinità con il brand e il mio background. Spesso vedo atleti supportati da aziende la cui immagine coincide poco con i loro valori e le loro caratteristiche, e questo è un peccato. Prima di avviare la mia attuale collaborazione con TNF ero sponsorizzato da un brand italiano molto più piccolo e temevo che l’approccio con la nuova realtà sarebbe stato più distaccato e complesso. Invece mi sono sentito accolto come in una famiglia. Anche tra gli atleti del team c’è un bel feeling di interesse reciproco e condivisione, pur facendo discipline diverse ma tutte accomunate alla montagna. Per me è l’approccio a fare la differenza: è ciò che noi atleti The North Face abbiamo in comune e da cui deriva la nostra forza.

Com’è per te condividere l’esperienza sportiva e i tuoi progetti con un team in cui sono presenti personaggi come Alex Honnold, Stefano Ghisolfi, Zach Miller e Markus Eder?
Ho incontrato alcuni di loro per la prima volta in Islanda, durante un workshop con TNF nel novembre 2021. Sebbene siano atleti molto conosciuti ho subito ritrovato in loro un lato selvaggio e allo stesso tempo umano che ci accomuna. Sono tutte persone profondamente innamorate della montagna, genuinamente interessate al prossimo e per questo ti fanno subito sentir parte di un gruppo, mettendoti a tuo agio. Mi ricordo le conversazioni con il gruppo dei freerider, in particolare con Markus Eder, di cui stimo molto la filosofia un pò zen: credo che anche noi atleti del trail possiamo imparare molto da queste discipline. Una cosa che mi ha colpito è quanto anche questi atleti siano informati e seguano il mio sport: non me l’aspettavo e mi ha fatto molto piacere.

Sei un atleta The North Face dal 2021, come è stata la collaborazione con il settore ricerca e sviluppo per quanto riguarda attrezzatura e calzature?
Lavoro a stretto contatto con un gruppo di ragazzi (Triangle) con sede ad Annecy, che si occupano principalmente di trail running e alpinismo. Mi sento libero di fornire loro i miei feedback in maniera sincera, tra noi c’è un rapporto molto onesto e senza filtri. Spesso dopo un’uscita di corsa mi capita di inviare dei WhatsApp ai ragazzi del team, i quali cercano di tradurre le mie idee in qualcosa di concreto.

Qual è la tua scelta di scarpa sulle varie superfici e distanze?
Mi piace l’idea che la scarpa sia il più possibile un prolungamento del piede e della gamba di un atleta. Amo le scarpe reattive e che diano un buon feeling con il terreno: per questo ho bisogno di avere grande fiducia nel prodotto che utilizzo. La scarpa che più mi si addice di tutta la collezione TNF è la Flight Vectiv, il modello più leggero e sviluppato per la competizione, che mi restituisce esattamente queste sensazioni. Se dovessi dare un consiglio a un atleta, di qualsiasi livello, sottolineerei l’importanza di testare il prodotto: non esiste una scarpa perfetta per un atleta o per un altro. Ho apprezzato il fatto che The North Face stia organizzando dei test scarpe in collaborazione con vari negozi sparsi sul territorio, per dare alle persone la possibilità di trovare il modello che più si addice alle loro caratteristiche individuali.

Sei uno dei primi atleti in Italia a potersi definire professionista nella tua disciplina, perché sei a tutti gli effetti supportato da TNF nella tua attività. Come vedi lo sviluppo dell’ambiente in questo senso, soprattutto a livello nazionale? Più in generale cosa pensi dello sviluppo del trail e delle opportunità che si stanno aprendo per professionalizzare le figure di atleti, tecnici e media che lavorano in questo settore?
Il trail è uno sport in grande espansione, è evidente come ci sia stato un boom di persone a cui piace correre sui sentieri. Ritengo ci sia ancora parecchia confusione nell’ambiente, tra brand, circuiti e federazioni che tentano di regolare questo sport. Un ulteriore problema è che rimane difficile riconoscere quali siano gli atleti veramente di alto livello, degni di supporto e attenzione mediatica. Vorrei che ci fosse più collaborazione per sviluppare lo sport a livello professionistico: il modello potrebbe essere quello delle maratone su strada, dove i grandi eventi che si basano sulle mass race sono nello stesso tempo in grado di valorizzare l’attività di alto livello degli atleti pro. Nel trail accade spesso che la sovrapposizione di diversi eventi e gare faccia sì che il livello della competizione venga diluito: sebbene esistano diverse discipline, che ritengo ugualmente interessanti e degne di svilupparsi a prescindere dalla distanza o dalle caratteristiche, la cosa più importante deve rimanere il confronto agonistico tra gli atleti e il livello tecnico espresso da una competizione. Semplificare tutto questo sistema renderebbe lo sport più appetibile per gli sponsor e più semplice da seguire per i fan.