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Hervé Barmasse: Resilienza alpina e prospettive per le vette del futuro

Text: Ilaria Chiavacci

Photos: Paolo Sartori

With: Hervé Barmasse

Lalpinista, erede di Bonatti e Messner, si apre in una riflessione profonda e accorata su cosa sia meglio per il futuro delle nostre cime: niente critiche, ma soluzioni.

Hervé Barmasse i modi di vivere la montagna li ha esperiti tutti: a 16 anni era una promessa dello sci alpino nelle categorie della discesa libera e dello slalom gigante, fino a che unincidente gli ha stroncato quella possibile carriera. “Scordati di sciare ancora, sarai fortunato se riuscirai di nuovo a camminare” gli dissero i medici. Hervé però non solo gli sci ai piedi li ha rimessi eccome, ma poi è diventato anche maestro di sci e pure di snowboard. La passione vera però non lha trovata in pista, come credeva da sedicenne, ma in quel contatto con la montagna che è riservato a pochi, nelle vie più impervie e nelle condizioni più estreme. Oggi è l’alpinista italiano che si appresta a raccogliere leredità di giganti come Walter Bonatti e Reinhold Messner ed è parecchio titolato a parlare del futuro delle nostre montagne, intese sia come formazioni geologiche, che come comprensori e comunità. Hervé può parlare del futuro del turismo di montagna non solo perché è un profondo conoscitore di questo ambiente e perché lo ama tantissimo, ma anche perché ha provato molte volte sulla sua pelle cosa significhi dover cambiare rotta, riformulare quella che credeva fosse la strada giusta. È successo a sedici anni con lincidente, è successo ancora quando è quasi morto colpito da una valanga mentre scalava una cascata di ghiaccio in Pakistan, ed è successo sullo Shisha Pangma, il suo primo 8000, scalato in stile alpino e abbandonato a tre metri dalla vetta perché la neve sotto di lui e sotto il compagno David-Göttler stava cedendo. Insomma, Hervé è uno che la resilienza lha allenata e coltivata, proprio come ha fatto con le sue incredibili doti da alpinista. 

Resilienza che è d’obbligo coltivare e allenare per tutte quelle comunità montane che hanno basato la loro sussistenza sullo sci alpino e sui comprensori, ma che oggi, alla luce dei cambiamenti climatici e dello spettro della siccità, si trovano costrette a ripensare la loro offerta, se non nellimmediato, sicuramente in un futuro abbastanza prossimo. Ho avuto la fortuna di poter trascorrere due giorni insieme ad Hervé nella sua Breuil-Cervinia, il comprensorio che per lui è casa, dominato da quella montagna, il Cervino, che per lui è fonte continua di ispirazione, quella montagna dove, tra vie nuove, prime solitarie, prime invernali e concatenamenti è lalpinista che ha compiuto più exploit, ma soprattutto il posto in cui ha ritrovato la speranza dopo lincidente grazie al padre Marco, alpinista e guida alpina pure lui. “Noi qui, a Breuil-Cervinia e Valtournenche, con i nostri 3800 metri di altitudine siamo molto fortunati, ma il turismo di montagna deve essere ripensato dalle basi.”

È sabato sera e siamo al rifugio Teodulo, a 3337 metri sopra il livello del mare, è fine novembre e ha già abbondantemente nevicato e fuori (sono le nove di sera) il termometro segna -15 gradi. Sembrerebbe tutto in regola, ma se sei un alpinista non ti fai fregare da quello che sembra” tutto ok. 

“Gli inverni sono sempre più miti, le estati sono sempre più calde e quest’anno abbiamo per la prima volta parlato di siccità: le prospettive future per le nostre stagioni invernali, soprattutto per quello che riguarda il turismo invernale legato alle stazioni di sci, deve essere sicuramente ripensato. In particolar modo per quelle stazioni che cercano di sopravvivere tra i 1000 e 1500 metri: quella ormai è diventata unaltitudine dove si possono fare degli sforzi enormi per sparare la neve, ma dobbiamo capire che se continuerà a mancare lacqua e ad esserci la siccità, probabilmente quellacqua dovrà essere utilizzata in altro modo.”

Quindi? Che fare? “Dobbiamo effettuare un cambiamento e lo dobbiamo fare subito affinché sia moderato e graduale. Dobbiamo riuscire a proporre nelle nostre località un turismo che sarà differente da come lo conosciamo, un modello alternativo ma che porterà comunque la gente in montagna. Se non lo facciamo adesso, e non partiamo subito, allora si rischiano delle grane. Per le stazioni che si trovano dai 1500 metri in su la prospettiva è un popiù rosea, ma anche lì si dovrà fare attenzione, perché ormai è solo questione di tempo.” La discussione che anima il mondo della montagna in questi mesi infatti riguarda proprio la sopravvivenza dei comprensori sciistici per come li conosciamo: “Io credo che sia poco lungimirante puntare il dito solo sugli impianti sciistici, ipotizzare di chiuderli: sicuramente ci dovrà essere una traslazione, questo passaggio però va preparato. Al di là di come verrà prodotta la neve se questa mancherà, unaltra questione importante legata ai comprensori riguarda la mole di persone che vi si riversa condensata in pochi mesi invernali. Una montagna può recepire 5000, 6000 auto? Sono molte le domande connesse allattività nei comprensori, però dobbiamo guardare anche allindotto che genera questo tipo di turismo, e dobbiamo capire come andarlo a sostituire. Chiudere e basta, dove c’è anche una responsabilità sociale dellindotto economico che unattività come lo sci alpino genera, semplicemente non ha senso.”

Parli in termini di sovvenzioni? “La prima cosa che serve sono delle idee, e poi servono dei soldi per realizzarle. Le idee però dobbiamo averle noi, un politico cosa ne sa di cos’è la vita in montagna, la realtà dei montanari e la realtà di queste stazioni? È chi vive queste realtà che deve impegnarsi a trovare delle vie duscita, i politici poi ci devono aiutare a renderle fattibili. Ma bisogna fare attenzione a una cosa: non possiamo immaginarci gli stessi numeri di un tempo, comunque qualcosa deve cambiare. Dobbiamo arrivare a un punto in cui riconoscere che quello che abbiamo ci basta, ci porta soldi a sufficienza e capire che bisogna fermarsi: lesagerazione non porta a un turismo sostenibile, ma al collasso. E serve anche unaltra cosa: smetterla con la critica sterile. Noi montanari dobbiamo impegnarci nellintavolare una discussione proficua sul nostro futuro, e non limitarci a parlare per slogan tranchant. Non è che possiamo spegnere lo sci, come non possiamo spegnere le fabbriche, o le città. Milano inquina, che facciamo, spegniamo Milano? Ci dovrà essere una transizione, ma dovrà essere graduale.”

Quale potrebbe essere un modo per una sorta di decrescita felice” per i nostri comprensori? “Immaginiamo un comprensorio che registri in una stagione invernale la presenza di un milione di persone, di cui 800 mila sono legate al turismo dello sci su pista, ma sappiamo che lo sci su pista è destinato a morire. Come faccio a mantenere quelle stesse 800 mila persone proponendogli un turismo differente? Magari un tipo di turismo non dove si lavori 4 mesi, poi ci sia una stagione morta, e poi altri 4 mesi, ma si lavori tutto lanno. Quelle stesse 800 mila persone, spalmate su 12 mesi anziché su 4, portano un tipo di turismo molto più sostenibile dal punto di vista ambientale. È questo secondo me quello che dobbiamo fare: far arrivare quegli stessi turisti in momenti diversi, diversificando lofferta legata alla montagna. Prendiamo gli Appennini ad esempio: il turismo della neve e dello sci sono terminati ormai molti anni fa e si sono preservati, sono rimasti molto selvaggi, ed è ad esempio quello che cercano gli stranieri: territori intatti e poco esplorati. Una direzione potrebbe essere questa ad esempio, creare dei parchi e tutelare quelle zone, che non dovranno essere visitate per lantropizzazione o per lofferta alberghiera, ma per quelle che sono dal punto di vista naturalistico. I parchi del Nord e del Sud America funzionano per quello, danno alle persone una natura intatta, preservata, ed è quello che dobbiamo fare anche noi.”

Il Rifugio Teodulo ha delle vetrate enormi che si affacciano proprio sul Cervino, montagna simbolo che, per la sua forma, viene utilizzata anche per descrivere altre montagne del mondo: lAma Dablan, per esempio, viene descritto come il Cervino dellHimalaya. Non solo, per la sua conformazione, tutto il massiccio è così selvaggio da essere definito lHimalaya europeo. Quando Hervé lo guarda si percepisce tutto lamore che nutre nei confronti di questa montagna, si capisce perché si accalora quando si parla di proteggere lambiente montano, alpino o himalayano che sia. Oggi che le avventure in montagna stanno diventando sempre più popolari infatti, oltre alla normale attività nei comprensori, anche lintensa frequentazione dei ghiacciai e delle cime più ambite non dà certo una mano alla situazione. “Il processo che ci deve essere per chi intende darsi a discipline outdoor a stretto contatto con la montagna più selvaggia deve passare attraverso cultura e coscienza, e quelle non le trovi su internet, ma le trovi attraverso lesperienza, tua e degli altri. Normalmente quando ci si approccia a certi tipi di ambienti, come appunto i ghiacciai, bisogna affidarsi a chi la montagna la conosce bene, cioè le guide alpine. Bisogna capire una cosa: la montagna è pericolosa: noi frequentandola accettiamo il rischio, ma dobbiamo anche accettare il fatto di rispettarla, di salirci alle sue regole, non alle nostre, quindi non lasciando traccia del nostro passaggio. I ghiacciai oggi sono in forte pericolo, noi qui a Breuil-Cervinia siamo fortunati: questi e quelli intorno al Monte Rosa saranno probabilmente gli ultimi a scomparire, ma prima o poi succederà, chi pensa che tra 100 anni ci saranno ancora i ghiacciai sulle Alpi è un illuso. Ma la riflessione che dobbiamo fare non è tanto che non ci sarà più un qualcosa che ci consente di fare attività in montagna, ma che non ci sarà più acqua, e lacqua è vita: oggi dovrebbe essere questo il focus di tutti quanti, la montagna assumerà unimportanza che non ha mai avuto, perché è necessaria alla vita delluomo.”

Ormai la luna è alta e illumina quella piramide perfetta che è il Cervino. “Ogni volta che lo guardo non posso a fare a meno di pensare a quante ne abbiamo passate insieme, certo, confrontato con la parete del Nanga Parbat sembra quasi piccolo.” Hervé sta per ripartire: probabilmente mentre starete leggendo questo pezzo sarà ad acclimatarsi in Nepal, tra il 10 di dicembre e Natale, prima di ritentare limpresa che lo scorso anno ha dovuto abbandonare a causa del maltempo: scalare un 8000 in inverno e in stile alpino (ovvero portando con sé tutto quello che gli serve e riportandolo giù). “Se ci sembra di non rispettare le montagne di casa, allora cosa dobbiamo dire di quelle dell’Himalaya o del Pakistan? Oggi siamo arrivati al paradosso, si parla sempre più di massificazione del K2: ci sono sempre più turisti che ci salgono con lossigeno e con le corde fisse, che stanno letteralmente plastificando la montagna. Ancora: sullEverest vengono abbandonati ogni anno 6 chilometri di corde fisse, che una volta finita la stagione rimangono inglobate dal ghiaccio e non si possono più togliere. Salire un ottomila a questo prezzo è solo un atto egoistico e di vanità.”

Al di là dei turisti però ci sono anche tanti atleti che frequentano le vie normali. “Io credo che un alpinista serio non lo dovrebbe fare: la storia degli 8000 è già stata ampiamente scritta. Non sei in grado di salirci in stile alpino? Pazienza: farai un 6000, un 4000. Credo che anche da parte delle aziende outdoor ci dovrebbe essere un popiù di serietà in questo, mentre invece continuano ancora a venire sponsorizzate imprese che contribuiscono a plastificare la montagna con le corde fisse. Dobbiamo iniziare a ragionare per esempi positivi e chi in questo mondo rappresenta l’élite, ovvero le guide alpine e gli alpinisti professionisti, ha il dovere morale di soddisfare i propri desideri di performance in maniera responsabile. Per me lunico modo di scalare una montagna è in stile alpino, ma non si tratta di una conquista sportiva, dellessere più o meno bravo a scalare una montagna, ma del lasciarla più o meno pulita. Io credo che dovremmo riprendere lesempio dei grandi alpinisti del passato, non per fare qualcosa di eclatante, ma per fare qualcosa di giusto.” 

Ed è per questo che riprovi il Nanga Parbat in inverno?Il punto di partenza mio e di David (Göttler) è che vogliamo dimostrare che si può scalare un 8000 in inverno in stile alpino. Noi forse ci siamo spinti un potroppo in là perché ci abbiamo provato sulla parete più grande del mondo che, in inverno, non è mai stata salita neanche in stile himalayano, quindi sarebbe stata una cosa veramente eclatante, la nostra motivazione però nasceva dal voler portare un esempio. Ovviamente è una cosa molto difficile: tutti gli 8000, in inverno, al momento sono stati scalati in stile himalayano. Neanche noi ce labbiamo fatta, ma sappiamo che è possibile con le condizioni meteo giuste: ecco perché ci riproviamo ma, a differenza dellanno passato, prima ci acclimateremo in Nepal, e poi decideremo quale 8000 salire in base alle condizioni metereologiche.”