Ormai il vento ci porta l’odore dell’Oceano. C’è una calma soprannaturale quando approdiamo su una spiaggia immensa, davanti al Golfo de Penas. Grandi ondate battono la spiaggia scura con un ritmo lento e sommesso. Il tempo rimane sospeso tra un’onda e l’altra mentre l’intera regione ci sembra il residuo di una preistoria sacra, priva della complicazione umana.
Siamo soli naturalmente, euforici per la bellezza inesprimibile nella quale ci sentiamo immersi.
Ci sediamo su una duna con l’Oceano Pacifico di fronte e improvvisamente ci scopriamo stanchissimi, sfiniti di remare da giorni per ore e ore, stufi di mangiare liofilizzati e di essere sempre bagnati. Quella sera, nella tendina, osservando il nostro percorso sulle immagini satellitari, decidiamo che è il momento di girare la prua verso nord.
Risalire il Rio senza l’aiuto della marea si rivela un incubo, condito da una improvvisa tempesta di grandine: piomba su di noi come uno schiaffo di acqua e ghiaccio che ci costringe ad aggrapparci alla riva. È così violento che non riusciamo neppure a parlarci, ognuno resta chiuso nella tuta stagna, nei suoi pensieri, rannicchiato nel kayak.
Il ritorno è psicologicamente più difficile, manca la motivazione che ti spinge verso l’obiettivo. Procediamo troppo lentamente e così siamo costretti a passare una notte nella palude. Con la tenda montata su un’isoletta galleggiante tra il pantano e le nebbie notturne crolliamo in un sonno profondo.
Il cielo impallidisce nel giorno mentre resto in piedi fuori dalla tenda distratto da un sogno che ho dimenticato. Passa sfrecciando un colibrì mentre osservo gli svassi scivolare nell’acqua che sembra metallo fuso. È ora anche per noi di riprendere la nostra strada liquida. Mentre pagaiamo nella nebbia, Silvano canta canzoni di montagna, forse per farci sentire meno isolati dal mondo.