Text & Photo Luca Schiera
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Esiste un equilibrio nel mondo: ogni azione produce una conseguenza per ristabilirlo. Newton lo aveva spiegato con i suoi principi della dinamica ma credo che questo concetto si possa estendere molto di più: quello che dai, prima o poi lo ricevi.
Riassumendo si può dire che dopo un po’ che le cose ti vanno bene, i colpi di fortuna finiscono. È un modo di ragionare molto semplice e fatalista, ma anche pianificando tutto nei minimi dettagli non si potrà prevedere tutto quello che accadrà. Sfruttare a proprio vantaggio gli imprevisti, spesso, è la chiave giusta.
Questa volta la parte delle incognite era molto più grande di quella del conosciuto, è per questo motivo che, quando tutto stava andando esattamente secondo i piani, iniziavo a insospettirmi: stava andando tutto troppo bene.
Il 17 febbraio insieme a Paolo Marazzi e Giacomo Mauri partiamo dall’Italia verso la Patagonia. Negli anni ho passato lunghe ore al computer a scansionare decine di chilometri quadrati delle immagini satellitari di quella zona. Cercavo delle montagne belle da scalare, non sempre si trovavano buone immagini ma a volte bastava un’ombra o un’irregolarità per intuire la presenza di una parete. Un giorno, con grande stupore, mi sono imbattuto in quella che sembrava una torre di granito alta 800 metri sullo Hielo Norte, in una zona completamento inesplorata e poco accessibile.
Per qualche tempo l’idea era rimasta lì, nella lunga lista dei progetti. Non compariva sulle mappe, non avevo fotografie o notizie di qualcuno mai passato da quelle zone.
Poi è saltata fuori una foto risalente alla spedizione inglese guidata da Eric Shipton nel 1964. Per puro caso, sullo sfondo di un’immagine scattata durante la traversata del ghiacciaio, si vedeva una bellissima torre di granito con in cima delle cornici di neve e un grande fungo di ghiaccio: era sicuramente lei. Il rischio era che fino a quando non fossimo stati sul posto non avremmo potuto sapere se tutto il progetto sarebbe stato fattibile o no, ma standocene a casa sicuramente non lo avremmo mai scoperto.
Con poche certezze e tanta speranza decidiamo di provarci. Dobbiamo capire da dove accedere al ghiacciaio, sembrano esserci varie opzioni ma alla fine l’unica possibilità fattibile pare essere partire in barca da Caleta Tortel, l’ultimo paese abitato, entrare nel fiordo giusto, risalire il fiume con un canotto a motore e farci lasciare a pochi chilometri dal ghiacciaio Steffen.
Ci immaginiamo vari scenari possibili e che tipo di terreno incontreremo, non possiamo avere altre informazioni se non quelle date dalle nostre supposizioni. Infine ci troviamo di fronte al primo vero ostacolo: non abbiamo idea di chi potrebbe accompagnarci. Mi viene in aiuto un amico “virtuale”, Camilo, che conosce molto bene lo Hielo ed essendo cileno ha contatti in zona. Mi gira il numero di un tale Paulo che vive a Tortel ed organizza giri in barca. Paulo viene a prenderci in aeroporto, facciamo la spesa per un mese e partiamo. Appena arriviamo a Tortel carichiamo la barca.
Sta andando tutto davvero bene, è il 18 marzo e una rara finestra di bel tempo dovrebbe iniziare domani e durare tre giorni. Sarà una tirata ma più tutto fila liscio più una vocina dentro mi dice che la fortuna finirà presto. Dopo un paio d’ore saliamo sui gommoni e arriviamo in un lago con qualche iceberg che indica l’inizio del ghiacciaio poco oltre. Paulo ci saluta e rimaniamo soli nella valle.
Mi sento ancora frastornato dal viaggio, solo poco tempo fa ero a casa in Italia e ora siamo da soli in mezzo a una valle disabitata senza avere avuto il tempo di adattarci alla nuova situazione; facciamo qualche battuta sul fatto che magari Paulo non ci verrà più a riprendere e dovremmo sopravvivere all’inverno, poi andiamo a fare un giro per vedere il posto. Dopo due ore e poca distanza percorsa torniamo indietro, andiamo a dormire un po’ sconfortati ma contenti di poter finalmente sdraiarci.
Ci svegliamo con il bel tempo. Con molta fatica raggiungiamo l’inizio del ghiacciaio ed arriviamo nel pomeriggio all’ultima piana di terra prima di salire sul ghiaccio. A fine giornata, consultando la mappa capiamo che in un giorno intero abbiamo percorso solo otto dei quaranta chilometri in linea d’aria che ci separano dalla parete. Se abbiamo ancora due giorni di bel tempo vuol dire che domani dovremo scalare e dopodomani tornare indietro: impossibile, dobbiamo rinunciare. Decidiamo di sfruttare questi due giorni rimanenti per capire l’accesso alla montagna, sarà fondamentale anche questo giro preventivo.
Saliamo su una lunga cresta rocciosa che si eleva per alcune centinaia di metri proprio sopra lo Hielo per avere un’ottima visuale aerea su tutto il percorso che dovremo seguire. Solo dopo avere superato l’ultima gobba riusciamo a vedere per la prima volta la parete, è davvero bella anche se non scorgiamo il lato più alto. Sembra fattibile ma serviranno cinque giorni di bel tempo per poter pensare di andare, scalare e tornare.
I giorni successivi li dedichiamo a sistemare una grande capanna in legno in cui dormiamo, fare legna per il fuoco e allenarci un po’. Non passa molto tempo che arriva quella che potrebbe essere la nostra occasione. Fino all’ultimo siamo incerti, ancora una volta prendere decisioni non è semplice, ma alla fine decidiamo di provare, se funziona abbiamo fatto la scelta giusta, se non va dovremo tornare indietro il prima possibile perché poi non avremmo più cibo.
Il primo giorno dovremo raggiungere il punto che la volta prima ce ne aveva richiesti due, da lì proseguire sul ghiacciaio evitando le zone più insidiose fino alla montagna, il terzo giorno scalare e poi pensare al ritorno in base a cosa ci sembrerà meglio.
Il giorno 1 va bene, il ghiacciaio è molto impegnativo ma dopo 10 ore arriviamo su un’isola rocciosa ottima per bivaccare. Il secondo giorno non va così bene, legati in cordata incontriamo difficoltà sempre crescenti. I crepacci sono nascosti sotto la neve e iniziamo a fare dei lunghi percorsi a zig zag per cercare le parti di ghiaccio meno visibili ed evitare i ponti di neve più lunghi. Dopo alcune ore con visibilità sempre più scarsa davanti a noi compare una semplice zona piatta bianca e ci fermiamo.
Alcuni buchi e qualche leggera ondulazione sulla superficie ci fanno notare dei crepacci enormi. Facciamo qualche timido tentativo ma in tutte le direzioni i ponti di neve cedono sotto il nostro peso, da qui in poi dovremo andare completamente alla cieca con il rischio di cadere insieme nello stesso crepaccio. Ci fermiamo a ragionare. Non vediamo nessuna alternativa possibile, abbiamo già investito molte energie per arrivare fino a qua e siamo ormai prossimi alla parete, non sappiamo se avremo un’altra occasione di ritornare ma il rischio è davvero incalcolabile. Alla fine decidiamo di tornare indietro, a facilitare la decisione il fatto che sta iniziando a nevicare.
La sera del giorno dopo siamo di nuovo alla capanna. Non abbiamo alternative, chiamiamo Paulo per farci venire a prendere e passiamo buona parte del giorno successivo con le orecchie pronte a percepire il ronzio della barca che non arriva mai, si è dimenticato.
Il giorno successivo tutto va come previsto e ci rimettiamo in viaggio verso il sud della Patagonia, fino a quando l’epidemia raggiunge anche il Sudamerica.
Il lato positivo di tutta la storia è che se fossimo rimasti nella valle ancora per le due settimane che avevamo previsto saremmo davvero dovuti ritornare a piedi, Paulo è stato messo in quarantena.
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