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Lagorai, il dispiacere della rinuncia

Text by Leonardo Panizza

Photos Elisa Bessega

Sono le 8 di sera, il sole sta calando e sto infilando i piedi nei calzini bagnati e freddi prima di metterli nelle scarpe gelate.

La vecchia stufa non è riuscita ad asciugare nulla in poco più di mezz’ora. Mi guardo attorno e mi sembra di essere in un edificio abbandonato abitato da qualche senzatetto. Immondizie buttate nel cassettone della legna, qualche fornello, una branda con dei vestiti logori ammucchiati, quattro litri di grappa sullo scaffale. Com’è che sono arrivato fin qui?

Sono a Malga Lagorai, punto nevralgico del discusso progetto di riqualificazione che interessa diverse strutture lungo il trekking di oltre 80 chilometri che da passo Rolle arriva fino alla Panarotta, in Trentino. È il terzo giorno che cammino sotto la pioggia battente e dopo 44,3 chilometri sono costretto ad abbandonare. Metto il frontalino e inizio ad avviarmi a piedi verso Ziano, mi mancano più di 10 chilometri da fare su una strada forestale per incontrare un amico che mi porterà a casa.

 

Alcune settimane prima di partire per la Translagorai Elisa ha iniziato ad essiccare zuppe, cous cous e barrette energetiche per riuscire ad essere completamente indipendenti e cercare di avere meno immondizie possibili da portare nello zaino. A fine essicazione abbiamo 1,5 kg di scorte che occupano uno spazio veramente ininfluente, da dividere per 3 notti e 4 giorni. Sono così contento quando carico lo zaino: con tenda, sacco a pelo, materassino, pane, qualche salsiccia e un po’ di formaggio comprati a Predazzo sono sotto i 15 kg totali.

Raggiungiamo Passo Rolle con i mezzi pubblici e mano a mano che ci allontaniamo dalla strada provo la sensazione di essere inghiottito da un essere vivente, prima il bosco che respira, poi gli inconfondibili pietroni che rendono il Lagorai un luogo sacro, un lastricato di qualche strano tempio in cui la natura regna sovrana, con le proprie bellezze e difficoltà. Ci voltiamo spesso, per vedere le pale di San Martino, il Catinaccio, la Marmolada, il panorama è infinito, si scorgono persino le tre cime di Lavaredo in lontananza.

Dopo 8 ore di cammino quasi ininterrotto ci fermiamo al bivacco Paolo e Nicola, è comodissimo, ben isolato, funzionale, dotato dei giusti comfort. Mentre scaldiamo un po’ d’acqua per reidratare la cena guardiamo il cielo stellato e intravediamo Malga Valmaggiore, altro luogo dove i lavori di riqualificazione sono già a buon punto.

La mattina successiva siamo in piedi alle 5, dobbiamo sfruttare la primissima parte della giornata perché è prevista pioggia. Infatti arriviamo al Bivacco Coldosè dopo alcune ore con i vestiti fradici. L’acqua aumenta e a malincuore decidiamo di fermarci per un giorno.

Anche questo fa parte del gioco e già sapevamo che una delle principali attrattive del Lagorai era la sua asprezza, la difficoltà a percorrerlo, la possibilità di vivere sensazioni che in molte montagne, come in città, non hanno più spazio. La solitudine, la paura, il senso di limite imposto dalla natura, la necessità di scegliere, sono situazioni che è sempre più difficile sperimentare.

E mentre si è disposti a sorvolare su questa mancanza in luoghi così spettacolari come le Dolomiti, non si sarebbe disposti a farlo in una catena che non presenta scorci altrettanto estetici. Il Lagorai è brutto e cattivo, ma proprio in questa caratteristica risiede la sua attrattiva, non è una montagna che è possibile svendere o addomesticare troppo facilmente.

Siamo fermi da alcune ore e le cose da fare non mancano, la legna da tagliare, ordinare e pulire pentole e tazze, riempire le taniche di acqua alla fonte. Il bivacco va custodito da chi lo abita, è qualcosa che vive con le persone che lo occupano. Non c’è bisogno di gestire i bivacchi, piuttosto di educare chi li utilizza.

Il giorno dopo anticipiamo la sveglia, dobbiamo muoverci molto e il meteo sembra peggiorare. Partiamo alle 4 con i frontali e scendiamo nel bosco, abbassandoci di quota ci inoltriamo nel territorio di esplorazione di M49–Papillon, l’orso che da alcuni giorni batte la zona in cerca della libertà. Le nostre strade si incrociano per caso e mi chiedo se in fondo non cerchiamo la stessa cosa.

Inizia a piovere e procediamo in silenzio, concentrati, la macchina fotografica di Elisa smette di funzionare a causa del freddo. Dopo qualche ora troviamo riparo per un pasto veloce al bivacco Teatin: poche assi di legno che chiudono l’ingresso di quella che è una grotta umida e fredda.

Nei pressi di cima Litegosa scorgiamo delle chiazze bianche, è neve. La prendo tra le mani, stiamo assistendo alla prima nevicata della stagione. Arrivati al bivio per la malga decidiamo senza nemmeno parlarci che scenderemo di quota, passare una notte in tenda in queste condizioni non è proprio possibile e proseguire in cresta è diventato pericoloso.

Sono le 5 di pomeriggio e camminiamo ormai da 10 ore sotto la pioggia quando raggiungiamo Malga Lagorai. La legna umida si accende a fatica nella vecchia stufa.

Poi il cellulare suona, è Giovanni, un compagno di numerose imprese che, senza tante parole, si propone di venirci a prendere a Ziano di Fiemme. Da dove siamo noi dista altre 3 ore. Tutto ben tracciato su larga forestale. Dopo un breve consulto decidiamo di prendere la strada in discesa e per un’ultima volta rimettiamo i vestiti bagnati addosso. È buio e continua a piovere.

Mentre scendiamo nella notte penso al dispiacere provocato dalla rinuncia. Quello che ci siamo proposti di fare non era una grande impresa, certo, ma attraversare il Lagorai senza lasciare traccia, utilizzando solo cibo essiccato in autonomia voleva essere un messaggio, una dimostrazione del fatto che è possibile muoversi rispettando la vocazione dei luoghi. La montagna non è qualcosa da piegare per assecondare le proprie volontà, non dev’essere solo successo. La rinuncia ci insegna che in fondo siamo solo gocce di pioggia che finiscono in un grande lago.

Ora bisogna avere il coraggio di stare sotto l’acquazzone, con i propri mezzi e con l’entusiasmo di un alpinismo giovane che difficilmente può essere misurato attraverso i canoni dell’alpinismo classico. Nelle Dolomiti, ad esempio, è oggi possibile praticare un’arrampicata che non danneggi la roccia, e mentre i mostri sacri dell’arrampicata si ostinano a mettere chiodi e trapanare, sempre più giovani praticano il Trad Climbing cercando di non lasciare traccia del proprio passaggio. Così anche noi siamo passati rispettando quello che è uno degli ultimi luoghi incontaminati del Trentino.

Arrivando all’auto ci rendiamo conto che Giovanni è il primo essere umano che vediamo da giorni, la montagna è fatta di vette, tempi, prestazioni, discussioni, ma anche di amici disposti a sacrificarsi per rendere meno faticoso un fallimento e noi ci auguriamo di non essere gli ultimi a poterla vivere così.

Ancora una volta ci rendiamo conto di quanto la vita in montagna sia severa e quanto ancora possa insegnare a noi, nuove generazioni, perché è nel caos cittadino che le idee si incontrano e fioriscono, ma è nella solitudine del Lagorai che riusciamo ad afferrarle per diventarne consapevoli.

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