Image Alt

Dolomiti di Brenta Trail running

Text Davide Fioraso

Photos Alice Russolo

“Un sabato di settembre, saccheggiando la dispensa dell’albergo, il mio compagno riempì i nostri zaini, mi offrì il viaggio in corriera e arrivammo a Molveno. Sei ore a piedi per salire al rifugio, una notte agitata, sveglia prestissimo e via per il Sentiero delle Bocchette. Improvvisamente, girato lo spigolo della Brenta Alta, mi si parò davanti il Basso. Era tutto in ombra con la cima illuminata dal primo sole. Stava davanti a noi, verticale, strapiombante, incombente, cupo e nello stesso tempo invitante.“

Qualche mese fa, tra le mie letture estive, stavo mettendo in archivio “E se la vita continua” di Cesare Maestri, il Ragno delle Dolomiti, personaggio discusso e travagliato, protagonista di accesi dibattiti nel mondo alpinistico. Un nome indissolubilmente legato alle pareti del Brenta. Dal celebre Campanile Basso, alla grandiosa Cima d’Ambiez, al possente Crozzon. Ricevuto l’invito per correre questa gara, mi trovavo di fronte ad una inaspettata coincidenza e non potevo certo rifiutare. Alle spalle c’era un programma di allenamento estivo, ovviamente disatteso, e una testa lungamente assente da questo mondo. Ma in cuor mio tanta rilassatezza; tanta voglia di lasciarsi andare e vivere questa esperienza con lo scopo di raccontarla, com’era successo alle Orobie. Le premesse, oltre a queste, erano commenti più che lusinghieri: “una delle gare più belle e meglio organizzate a cui abbia mai partecipato”, “in mezzo alle Dolomiti di Brenta ti sembra di stare su di un altro pianeta”.
A Molveno, quel sabato, ci sono arrivato in auto e non ho dovuto saccheggiare alcuna dispensa dell’albergo. Nei miei occhi, oramai, scorreva l’intero scenario di queste montagne. Salvo trovarmi a partire nella direzione opposta da come me l’ero immaginata.

“Partivamo da Molveno in piena notte, ognuno si caricava uno zaino che pesava dai trenta ai quaranta chili […]. Ogni ora e mezzo di cammino ci concedevamo un riposo di dieci minuti. Il primo lo facevamo a metà della Val delle Seghe, il secondo al Rifugio Selvata, il terzo al Baito dei Massodi e il quarto in prossimità del Pedrotti. La mia sosta preferita era quella della Selvata perché la Cesira aveva tre figlie, una delle quali aveva un seno favoloso.”

E’ stata una gara goduta dal primo all’ultimo km (oddio, l’ultimo non proprio), gestita con parsimonia e risparmio. Nei primi 20 km, 2000 m di dislivello scorrono via lisci e regolari. Un bellissimo single track, quello sul sentiero 301, anticipa il pianoro di Malga Spora, per poi salire in maniera costante, verso il Passo della Gaiarda, sferzati da vento freddo e pioggia fine. Da qui, in quota, su piacevoli saliscendi fino ai 2442 m del Passo Grosté. Ma è superato il rifugio Graffer che inizia il vero spettacolo. Per le gambe, per la mente, per gli occhi. Lasciato a malincuore il Tuckett il Sentiero del Fridolin guida attraverso un mare di roccia fino alle larghe cenge e i ghiaioni che risalgono la Val Brenta Alta. Dal Brentei è come se si spalancasse una porta verso l’ignoto, verso i pendii innevati della Bocca di Brenta. Il Tosa Pedrotti è un sospiro di sollievo. Un bicchiere di thè caldo e una lunga discesa verso valle, con il sorriso in volto, cercando di recuperare qualche posizione, lasciata indietro nelle precedenti divagazioni. Da Pradel in poi sono gli ultimi km, quel contorno che sembra non finire mai. Piazza S. Carlo è la passerella su Molveno, il lungolago il suo punto di arrivo.

“Al Rifugio Brentei, il giorno della convocazione, oltre al Bruno Tessasi e Pisoni c’era tutto il gotha del Club Alpino. Stavano tutti con il naso all’aria, armati di binocoli, perché avevano saputo che sarei sceso arrampicando dal Crozzon di Brenta […]. Verso le dieci mi affacciai alla parete e iniziai a scendere arrampicando lungo quel muro verticale che avevo percorso in salita da solo un anno prima. Per la prima volta nella storia dell’alpinismo un uomo scendeva da solo una via di sesto grado.”

Ora, a mente fredda, ricalco le tappe e focalizzo i ricordi sulle persone che ho avuto accanto, con le quali ho scambiato qualche chiacchiera, condiviso qualche sorpasso, costruito fantasie. Medito aneddoti, domande e considerazioni. Sul fatto che cenare a base di farina di castagne la sera prima non faccia parte delle “grande idee”. Sul perché Olanda e Vicenza siano state le nazioni maggiormente rappresentate (per omaggiare quest’ultima hanno persino trasferito una parte delle Gallerie del Pasubio dopo il Croz dell’Altissimo). Sul motivo per cui i local over 50 non guardino in faccia nessuno, ostentando anche un pizzico di arroganza. Su come sia riuscito, quel personaggio, con due telefonate tra il Tuckett e il Brentei, a mettere d’accordo moglie e figli sulla prossima meta delle vacanze, chiamare l’agenzia di viaggi e inviare un bonifico per la caparra. O sulla questione per cui conoscere il gestore di un rifugio comporti inevitabilmente un ristoro a base di birra media. In tutto questo, una sola e unica certezza: la sezione centrale tra il Graffer ed il Brentei è qualcosa che ognuno dovrebbe vedere almeno una volta nella vita.
Non lo nego, amo le gare corribili, quelle da risolvere senza troppi strappi nervosi, senza un profilo altimetrico da elettrocardiogramma. In alternativa, prediligo quelle immerse in un contesto paesaggistico talmente affascinante da saper dirottare la mia mente altrove, come raccontano le parole di Alessandro Locatelli: “Ho bisogno di essere presente in un posto dove mi sento minuscolo e inutile, dove i miei problemi sono ridicoli e dove posso perdermi per ore senza sentire il passaggio del tempo.” Adoro ed ho adorato il Dolomiti di Brenta per questo. Il fondo tecnico, le viste mozzafiato, la roccia nuda, una curva che sale costante in un’unica soluzione. Adoro ed ho adorato ancor di più la sua atmosfera ovattata, mistica. Le nuvole basse, la pioggia leggera, la neve di  Settembre. Per la prima volta in vita mia ho fatto partire il GPS e nascosto l’orologio dentro lo zaino. Non volevo sapere distanze e dislivello. Solo godermi il viaggio senza distrazioni. Questa volta, il DBT, si aggiudica un posto da podio nella mia personale classifica.