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Intervista con Jacopo Larcher: “L’unica costante è il cambiamento”

With Jacopo Larcher & Barbara Zangerl

By Marta Manzoni

Photo Alpsolut

With La Sportiva & Black Diamond 

Scala “per il puro piacere di farlo” e dice che l’arrampicata è uno stile di vita. Cerca la purezza in ogni movimento sulla roccia, così come l’essenziale nella vita. Jacopo Larcher sembra non conoscere la fretta e la rabbia: scala con calma ed equilibrio, sfidando e superando i propri limiti.

Crede che ci sia qualcos’altro oltre la pura difficoltà: mettersi alla prova, trovarsi in situazioni dove non ti senti a tuo agio, essere costretti a rinunciare. Lo spirito giusto è provare un movimento in più, arrivare un po’ più in alto, senza scorciatoie. Altrimenti non c’è gusto. Spera di avere la stessa passione di oggi anche a novant’anni. Il climber alto atesino, insieme alla sua compagna Barbara Zangerl, ha stabilito un nuovo record sulla Nord Eiger, scalando Odyssee in sole 16 ore: aperta nel 2015 da Roger Schaeli, Simon Gietl e Robert Jasper, è la via più dura della parete, con i suoi 1.400 m di sviluppo, 33 tiri, e difficoltà fino all’8a+. Nel 2018 i due climbers avevano scalato Odyssee in quattro giorni. Quest’anno la coppia è tornata sull’Eiger per provare la via in giornata: obbiettivo raggiunto.

 

“Odyssee”, la Nord dell’Eiger, una delle pareti più iconiche e impegnative delle Alpi. La velocità di solito non è una prerogativa dei vostri progetti, come mai avete fatto un’eccezione?
A questo giro abbiamo lasciato tutti i sacconi pesanti a terra. Volevamo provare una nuova esperienza: ci siamo sempre concentrati solo sul salire delle vie che ci interessavano davvero, senza pensare a farle velocemente. Questa volta è stato diverso e devo ammettere che mi sono divertito molto. Quando pianifichi di stare tanti giorni in parete hai più tempo per goderti l’avventura senza stress, però ti focalizzi un po’ meno sull’arrampicata, rispetto all’organizzazione della logistica. In giornata pensi solo a scalare ed è una bella soddisfazione riuscire a salire una parete così maestosa in un colpo solo.

 

Com’è nata l’idea di questo progetto?
Quando abbiamo finito di scalarla la prima volta, nel 2018, ho pensato subito che mi sarebbe piaciuto provare a salirla in giornata. È un po’ strano però tornare su una via già fatta, e quindi ho pensato che a Babsi non interessasse il progetto. Dopo un po’ è stata lei a dirmi che aveva avuto la mia stessa idea e così abbiamo deciso.

Durante un vostro precedente tentativo in giornata avete dovuto abbandonare al penultimo tiro a causa del maltempo. È importante saper rinunciare per questioni di sicurezza?
Sì, certo in montagna è fondamentale avere il coraggio di tornare indietro anche quando si è a un passo dalla cima, se le condizioni – fisiche, meteo, del territorio – non consentono di proseguire. Nel nostro caso però più che una vera e propria scelta era l’unica soluzione possibile: eravamo quasi in vetta, a circa 3.600 metri, una quota alla quale un temporale può diventare molto spiacevole. Ci trovavamo sulle ultime lunghezze, un po’ più appoggiate: la parete si è trasformata in una vera e propria cascata, impossibile da salire. Non abbiamo neanche dovuto riflettere o metterci d’accordo: dovevamo tornare subito indietro. È importante saper rinunciare prima di trovarsi in determinate situazioni, anche noi avremmo dovuto farlo, ma il meteo sembrava stabile.

 

Il momento più bello e il più difficile?
Siamo partiti all’1 e 30 di notte e abbiamo scalato la prima metà della via al buio. Abbiamo raggiunto il Bivacco Ceco alle 7.30 del mattino: ci stavamo divertendo davvero molto e cercavamo di dare il massimo. Quando siamo arrivati al tiro dove ci eravamo calati al precedente tentativo ci siamo resi conto che eravamo super in anticipo. Alle 5.30 del pomeriggio eravamo entrambi in vetta, radiosi e felici. Ci siamo abbracciati fortissimo e quello di certo è stato il momento più intenso. L’unico momento di preoccupazione è stato al penultimo tiro, quando ci siamo accorti che l’ultima parte era molto bagnata e ghiacciata, e, nonostante siano passaggi abbastanza facili, avevamo un po’ di timore di doverci di nuovo calare a 30 metri dalla cima. Per fortuna non è accaduto ed è andato tutto bene!.

 

Tra una via sulle Dolomiti e una spedizione in luoghi esotici cosa preferisci?
L’avventura si può trovare ovunque, dietro casa come dall’altra parte del mondo: basta vedere le cose da un altro punto di vista, con un occhio diverso, una nuova prospettiva. Ci sono ancora tantissime cose da fare sulle Dolomiti, basta essere creativi. L’arrampicata poi diventa un po’ un pretesto per viaggiare dall’altra parte del mondo: ti dà l’opportunità di vedere nuovi luoghi e conoscere culture diverse. È difficile dire cosa sia meglio.

Un posto che ti è particolarmente piaciuto, in Italia e nel mondo?
L’India e il Perù, entrambi viaggi che ho fatto lo scorso anno e mi hanno fatto riflettere molto. Ho conosciuto tante persone che mi sono rimaste nel cuore: non hanno davvero niente e sono le prime a essere disposte ad aiutarti, sempre sorridenti, super aperte. In Italia invece Cadarese, in Val d’Ossola, diventato il mio parco giochi preferito negli ultimi anni, e, in Dolomiti, la Marmolada, una parete ancora in qualche modo un po’ selvaggia.

 

Hai detto: ‘l’unica costante è il cambiamento: per crescere, nello sport come nella vita, bisogna uscire dalla propria zona di comfort”. Come si fa a riconoscerla quando si è assuefatti dalla routine?
Quando ti accorgi che non hai mai paura, che riesci a fare tutto semplicemente, nella vita come nell’arrampicata, vuol dire che sei nella tua zona di comfort. I contesti che vanno ricercati sono situazioni in cui non ti senti a tuo agio. Per me, per esempio, potrebbe essere trovarmi a parlare davanti a un pubblico: è un aspetto nel quale sto migliorando però faccio ancora fatica. La mia zona di comfort è stare da solo con Babsi o con qualche amico fidato.

 

Come ti vedi in futuro? Hai un piano B?
Vorrei essere meno timido e capace d’intrattenere le persone. Vorrei vivere la mia passione per la fotografia al massimo, combatto ogni giorno con me stesso per dedicargli più tempo. Da un punto vista lavorativo Babsi è impegnata in ospedale al 30% come assistente radiologa, e io traccio tanto per le palestre e la nazionale austriaca, ora, infatti, viviamo in Austria al confine con la Svizzera. Per me è molto importante avere un piano B per sentirmi libero e slegato da dinamiche legate al dover sempre “vendere” i propri progetti. Capisco che sia assurdo dirlo, perché l’arrampicata è il mio lavoro, ma non voglio vederlo come lavoro, deve rimanere la mia passione. Desidero continuare ad arrampicare perché ho voglia, non perché deve avere un riscontro economico e mediatico. Come si evolverà la nostra carriera non lo so, spero che avremo questa passione fino a novant’anni, sicuramente ora siamo più interessati alle grandi pareti e a progetti un po’ più alpinistici, alle spedizioni, legate sempre all’arrampicata su roccia.

Come vivi la tua visibilità mediatica? È un modo per portare avanti le tue idee o pensi che la tua immagine diventi troppo commerciale? 

Cerco sempre di non pensarci, mi vedo ancora come un normale climber e tracciatore. L’unico vantaggio è che quando si vogliono portare avanti delle idee si possono condividere con un gran numero di arrampicatori. Credo che l’arrampicata non sia solo uno sport ma uno stile di vita, c’è qualcos’altro oltre la pura difficoltà, per esempio viaggiare, mettersi alla prova, trovarsi in situazioni spiacevoli, essere costretti a rinunciare. Poi sarai più motivato a tornare là, a fare un movimento in più e arrivare un po’ più in alto. Mi sembra che la comunità di climbers stia un po’ perdendo questo spirito, c’è una visione più consumistica: bisogna fare tutto in fretta e subito, trovando una scorciatoia per salire. Si sta perdendo la parte più avventurosa. Tra l’altro questo stile, che non tiene conto di un approccio graduale, è più pericoloso. Penso ad esempio a quando si va a fare blocchi: l’aspetto divertente è trovare una soluzione per chiuderlo insieme agli amici, impiegandoci del tempo. Ora molti climbers guardano il video su youtube per sapere come salire e poi dicono che l’hanno chiuso al secondo tentativo, in dieci minuti. Oppure si calano dall’alto per capire com’è fatta la via e poi salgono con lo stick per rinviare. Così non c’è gusto.

 

Un altro progetto con Barbara. Com’è come compagna di cordata? Litigate in parete? 

Litighiamo molto di più a casa, in parete non è mai successo. È una grande fortuna avere questa passione in comune: ogni esperienza diventa più bella se condivisa con la persona che ami. Poi ci conosciamo talmente bene che non dobbiamo quasi parlarci quando scaliamo: capiamo al volo se l’altro ha un momento difficile, sappiamo che non dobbiamo nasconderlo all’atro, siamo “senza filtro”. Funzioniamo veramente bene, non solo come coppia ma anche come team. Il lato negativo è che se capita di trovarsi in una brutta situazione si ha più paura per l’altro, ci si sente più responsabili. 

 

Ti ricordi il primo progetto insieme? 

L’arrampicata è sempre stata la nostra più grande passione, ed è stato naturale iniziare a scalare insieme. Non abbiamo mai programmato nulla più di tanto, seguiamo sempre il nostro istinto, per questo preferisco chiamarle avventure piuttosto che progetti: sono spontanei, nascono da idee dettate dalla curiosità. Forse la prima via più alpinistica che ricordo insieme è Tempi Moderni, in Marmolada. Non avevamo tanta esperienza e l’abbiamo completamente sottovalutata, pensavamo di essere molto più veloci, invece a pochi tiri dalla cima ci siamo persi e abbiamo dovuto calarci per tutta la notte. È stato il primo test che ci ha fatto capire che anche come cordata funzioniamo davvero bene. 

 

Prossimi obbiettivi?

L’anno prossimo torneremo in Yosemite per girare l’ultima parte di un documentario che una televisione austriaca sta dedicando a me e Babsi. In teoria quest’anno sarei dovuto andare in Kirghizistan e in Sud America, ma è stato tutto, spero, rimandato al prossimo anno. Ci piacerebbe molto fare una spedizione insieme, Babsi non ne ha mai fatta una e sarebbe bello condividerla, per esempio aprire una nuova via in Pakistan o in India. 

“Non avevamo tanta esperienza e l’abbiamo completamente sottovalutata, pensavamo di essere molto più veloci, invece a pochi tiri dalla cima ci siamo persi e abbiamo dovuto calarci per tutta la notte. È stato il primo test che ci ha fatto capire che anche come cordata funzioniamo davvero bene.”

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