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L’incredibile vita di Krzysztof Wielicki

By Gian Luca Gasca

A diciassette anni le sue prime esperienze in montagna, sulle falesie polacche. Un approccio al mondo verticale che segnerà indelebilmente la sua vita portandolo, nell’inverno del 1980, sulla vetta dell’Everest insieme al compagno Lezsey Chicky.

“Eravamo come uccelli in gabbia, sarebbe bastato aprirci la porta per farci volare liberi nel cielo” a raccontarlo è Krzysztof Wielicki, leggenda vivente dell’alpinismo himalayano. Polacco, classe 1950 Krzysztof si presenta in maniera semplice. Ci aspetta di fronte a un buon bicchiere di vino italiano pronto a raccontarsi, a raccontarci la sua incredibile storia nata e vissuta di là dalla cortina di ferro. A diciassette anni le sue prime esperienze in montagna, sulle falesie polacche. Un approccio al mondo verticale che segnerà indelebilmente la sua vita portandolo, nell’inverno del 1980, sulla vetta dell’Everest insieme al compagno Lezsey Chicky.
Fu il primo ottomila conquistato, come si diceva un tempo, durante la stagione fredda, “non mi sarei mai aspettato di arrivare in vetta. Ero il più giovane e la mia esperienza alpinistica era limitata a montagne di settemila metri” racconta divertito. “Mi vengono in mente tante domande, oggi, ricordando quei tempi, quella salita. Mi chiedo, per esempio, come sarebbero andate le cose se non fossimo arrivati in cima, che ne sarebbe stato dell’himalaysmo polacco”. Krzysztof se lo chiede con ragione perché l’ascensione invernale dell’Everest, il 17 febbraio 1980, è stata una vera rivoluzione sia per il mondo dell’alpinismo che per la storia sportiva polacca. In poco tempo sono nati nuovi club alpini e in tanti hanno iniziato a scalare, a cimentarsi su pareti e vette ricercando una dimensione fino ad allora quasi sconosciuta in un Paese dove la maggior parte del territorio è costituita da pianura. “C’era entusiasmo e voglia di fare qualcosa di nuovo, avevamo il sostegno dell’opinione pubblica così abbiamo continuato”. Un mese di lavoro e sette in spedizione, “una vita bellissima” ride Wielicki.
La vita in Polonia non era però così bella, Krzysztof la racconta bene nella sua biografia “La mia vita” edita da Hoepli. Nato a Szklarka Przygodzicka, un piccolo villaggio nel sud ovest della Polonia, la sua infanzia è piacevole e gli offre la possibilità di passare molto tempo all’aria aperta, a contatto con la natura. Figlio del direttore della scuola ha una vita più agiata rispetto a quella dei suoi coetanei, impegnati tutto il giorno dai lavori della campagna per guadagnarsi il pane. Non stiamo parlando dell’Italia anni 50, oltre il Muro non è arrivato il Piano Marshall e la Polonia socialista stenta a risollevarsi. A tutto questo si aggiunge lo stato che controlla, vieta e omogenizza tutto senza lasciare spazio al libero arbitrio.
I polacchi erano abituati a soffrire già in patria, forse per questo erano i migliori in inverno. “Kukuczka un giorno mi disse che gli alpinisti occidentali erano troppo abituati alle comodità della vita rispetto a noi” sorride Wielicki. “Per questo l’inverno con le sue condizioni estreme non ci spaventava”.

Il primo incontro con il mondo verticale Krzysztof ce l’ha sulle falesie di Sokoliki, nella Polonia sud occidentale. È qui che impara i primi rudimenti, che si cimenta con manovre, chiodi e corde. L’amore vero del giovane saranno però le scalate invernali dove “te la devi cavare da solo”, inventandoti soluzioni anche bizzarre per uscire fuori da situazioni complicate.
“Andavamo a scalare con un’attrezzatura che non ha nulla a che vedere con le comodità di oggi” spiega. “Per impermeabilizzare le giacche, nella parte interna cucivamo dei fogli di plastica”, ma non funzionava così bene perché poi diventavano pesantissimi scafandri da portarsi dietro per tutta la salita. Sono state esperienze dure, che ci hanno formati nello spirito”, che li ha temprati inverno dopo inverno passato sui Tatra. Montagne basse ma dalle condizioni terrificanti su cui il ragazzo si cimenta con i compagni del club alpino. Una vera fortuna quest’associazione, gli consentirà non solo di mostrare le sue capacità in montagna permettendogli di costruirsi un futuro diverso, ma anche di uscire a conoscere il mondo al di fuori della Polonia. “Noi alpinisti avevamo il passaporto, ma non potevamo usarlo come volevamo”. Ogni viaggio doveva essere autorizzato e al rientro bisognava riconsegnare il documento alle autorità. “Era una grande occasione quella, mi ha permesso di vedere il mondo, di scalare in Caucaso e sul Monte Bianco, di testare le attrezzature occidentali che per noi erano lontane anni luce”.
Con l’Everest tutto cambia.

“Wielicki, Wojtek Wróż ha rinunciato. Farai parte della spedizione invernale”. Una lettera essenziale quelle che informa Krzysztof della sua partecipazione alla National Expedition del 1980 diretta da Andrzej Zawada. Per il ragazzo è una grande sorpresa da cogliere con l’entusiasmo di un atleta invitato nella nazionale olimpica. “Mi sentivo di rappresentare la mia nazione” spiega. “Era il momento dei polacchi, l’occasione per distinguerci e far sapere al mondo di cosa eravamo capaci. Fino a quel momento non ne avevamo avuto l’opportunità” ricorda con orgoglio lo scalatore. L’ambiente di una spedizione nazionale è però diverso da tutto quello che Wielicki ha vissuto fino a quel momento, le proporzioni della macchina organizzativa fanno spavento. Già solo le scorte alimentari rappresentano una mole difficilmente immaginabile. Krzysztof da un lato è affascinato da tutto questo mentre dall’altro è un po’ intimorito. Sa bene di essere il più giovane, di trovarsi in un gruppo dove molti hanno un’esperienza superiore alla sua. “Me ne stavo buono e facevo quel che mi veniva detto” commenta.
A Zawada va il merito di aver saputo creare un gruppo coeso in grado di vedere, nello sforzo dei lavori sulla montagna, l’obiettivo comune. La vetta del singolo aveva poco importanza, fondamentale era invece essere i primi a violare un ottomila durante la stagione fredda. “Mentre mi avvicinavo alla cima, non pensavo che in quel momento stavo scrivendo la mia storia personale e credo che Leszek Cichy condividesse le stesse sensazioni”. Niente invidie tra i componenti della spedizione del 1980, solo un sano spirito patriottico, una felicità autentica perché “il risultato riguardava noi tutti”. Era il successo di tutta la spedizione, ma non solo. Era la vittoria di tutto l’ambiente alpinistico polacco, di tutta la nazione. “Mentre noi eravamo impegnati sull’Everest, a casa i giornali seguivano passo dopo passo la nostra salita. Il Paese era in fibrillazione e aspettava di vederci in vetta come si attende un gol durante la finale del mondiale di calcio”. Radio, TV, carta stampata, quella manciata di polacchi impegnati sulla più alta montagna della Terra erano diventati il simbolo di uno Stato bisognoso di successo, di rivincita.

Al rientro dalla spedizione qualcosa cambia. Krzysztof, responsabile del laboratorio di sistemi informatizzati presso la fabbrica di automobili di Tychy, decide di lasciare il posto fisso per inseguire la sua passione. È il 1983 e la sua scelta non viene presa molto bene, soprattutto in famiglia. “Lasciare un posto da dirigente per andare a fare l’operaio a molti ha dato l’idea di una retrocessione nella scala sociale. Anche mia mamma fu molto delusa da quella mia scelta volontaria”. Tanti pareri contrari che il ragazzo ignora, non ha alcuna intenzione di tornare nei ranghi. “Avevo deciso di prendere in mano la mia vita e di decidere al mattino cosa fare per il resto della giornata” racconta. Ecco allora che Wielicki cambia drasticamente carriera iniziando a fare lavori in quota con il locale Club d’Alta Montagna di Katowice. “Con loro avevo molto più tempo per allenarmi, scalare e sognare”. Qualche soldo bisogna però pur guadagnarlo e i lavori con la fune, nella Polonia degli anni 80, non sono poi tanto richiesti. “Noi eravamo bravi a inventarci i compiti” ride Krzysztof. Con un manico, un rullo e un secchio il gruppo vanno dove ci sono alti palazzi, torri di raffreddamento o ciminiere a prestare la propria manodopera. “Con queste attività riuscivamo a mantenere le nostre famiglie, nonostante per legge solo una piccola parte dei proventi derivanti dai nostri lavori in quota potesse essere destinata a noi e al mantenimento delle famiglie”. Per averla, quella piccola percentuale, era inoltre necessario seguire una lunga trafila burocratica.
Nonostante questo però i ragazzi riescono a vivere dignitosamente e a concedersi lunghi periodi in montagna. “All’epoca la vita costava poco, bastava riuscire a vendere qualcosa in cambio di valuta pregiata durante una spedizione o un viaggio: con i 50 dollari che ottenevamo per un sacco a pelo o un piumino, in Polonia si poteva vivere almeno due mesi”. A lavorare davvero “abbiamo dovuto cominciare dopo, quando è arrivata la libertà”.
Cinquant’anni d’alpinismo
Il curriculum himalayano di Krzysztof fa impressione. Dopo la prima esperienza sull’Annapurna non si è più fermato raggiungendo la vetta di tutti e quattordici gli ottomila. Tra questi Everest, Kangchenjunga e Lhotse li ha saliti in prima assoluta invernale ma, non è finita. Quando nell’inverno del 1988 affronta il Lhotse lo fa in solitaria dal campo 3 e, soprattutto, senza utilizzare ossigeno supplementare. L’alpinismo di Wielicki non è però fatto di sole spedizioni invernali, durante la bella stagione il suo spirito esplorativo l’ha più volte spinto alla ricerca (e realizzazione) di nuove vie sui grandi colossi del pianeta. Decine sono state le spedizioni in cui ha svolto un ruolo di coordinamento e organizzazione.
Difficile definire Krzysztof oggi, lui è l’insieme di tutte queste esperienze. È un uomo riflessivo, con una nota d’impulsività. Probabilmente un rimasuglio di giovinezza, la stessa con cui ci si diverte attorno a un tavolo senza mai parlare di alpinismo. È questa forse la cosa che più impressiona di quest’uomo. La sua vita è fatta d’alpinismo, i suoi ricordi sono strettamente legati a questo mondo. Eppure, se non sono gli altri ad entrare in argomento, lui è in grado di non fare alcun accenno a quel mondo che tanto gli ha dato. “L’alpinismo è stato lo scopo della mia vita, dopo un po’ però mi annoio a ripetere sempre le stesse cose” ci confida sorridendo. “Più che delle mie esperienze amo parlare del significato profondo che queste hanno avuto su di me” aggiunge ancora prima di spiegarci che quando gli alpinisti diventano vecchi imparano che le sconfitte in realtà non esistono. “Non ci sono reali sconfitte, se non la morte. Ogni volta in cui si rinuncia alla vetta tornando indietro si aggiunge qualcosa al proprio bagaglio di esperienze. Informazioni utili per tornare e riuscire”. Una regola universale che vale nell’alpinismo come nella vita.

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