Image Alt

La Lezione dei Nenet

La fotografia per lui è stata inizialmente una sorta di terapia, poi è diventata una passione e adesso è un’esigenza. L’ultimo confine che lo ha portato a superare è quello della Siberia più dura, dove ha incontrato i nomadi Nenet.

I suoi scatti stanno diventando sempre più popolari tra gli amanti dei viaggi e dell’outdoor, ma per Gabriele Pedemonte la fotografia non è un lavoro, piuttosto una terapia, un modo per aprire la mente e curare le ferite dell’anima. “Ho iniziato a scattare nel 2014: stavo attraversando un periodo di depressione dal quale, a conti fatti, se sono uscito è stato soprattutto grazie alla macchina fotografica. È una passione che ho unito all’altro mio grande amore: i viaggi, soprattutto quelli che mi portano a conoscere culture molto diverse dalla mia.”

Il talento senza la passione va poco lontano e Gabriele li ha entrambi tanto da essere passato, in neanche dieci anni, dall’essere un totale sconosciuto a partecipare a esposizioni internazionali e veder pubblicati i suoi scatti sui più importanti magazine di outdoor. Contando che scatta solo durante le spedizioni e che ci sono stati due anni di stop dovuti alle pandemia si può considerare un bel risultato: “Quello che mi ha sempre affascinato nelle mie spedizioni è l’entrare in contatto con persone che hanno stili di vita completamente diversi dal mio.” I grandi da cui Gabriele prende ispirazione hanno raccontato per immagini i popoli più affascinanti e remoti della terra: Sebastião Salgado, Steve McCurry e Jimmy Nelson. “Ho anche avuto la fortuna di conoscere Jimmy Nelson anni fa a Parigi, in occasione di una mostra durante la quale esponevo anche io. Loro, in questa specifica nicchia, sono stati dei pionieri, sia dal punto di vista della fotografia di viaggio che del far conoscere al mondo la vita di determinate popolazioni.” È per questo che per la sua ultima spedizione ha scelto la Siberia: terra tanto bella quanto inospitale dove vivono i Nenet, popolo nomade che vive di pesca e allevamento di renne ritratti in passato proprio da Nelson.

Nei tuoi viaggi fotografici eri sempre andato al caldo, questa spedizione ti ha messo alla prova?
Decisamente. La Siberia è un viaggio molto complicato, non ti puoi appoggiare a delle strutture, perché non ce ne sono, quindi se vai lì devi per forza alloggiare e vivere con i Nenet: sono stato con loro una settimana su quasi due di viaggio. Magari sembrerà poco, ma ti assicuro che a quelle condizioni, a cui noi non siamo abituati, una settimana la percepisci come un’eternità. Avrei dovuto trovare temperature intorno ai -20, -25 gradi al massimo, ma una perturbazione inaspettata ha fatto precipitare il termometro a -50 dopo i primi due giorni. Scattare a quelle temperature è veramente impegnativo: è faticoso e doloroso per il fisico, ma complicato anche per l’attrezzatura stessa.

Dovevi essere molto veloce immagino.
Fino a -40 la macchina reggeva, ma a – 50 il mirino si congelava diventando inutilizzabile: con guanti e moffole diventava molto difficile togliere il ghiaccio che si accumulava in pochissimo tempo, lo schermo si copriva in continuazione di nevischio, le lenti sfrigolavano, la messa a fuoco iniziava a scarrellare e la batteria durava veramente niente. Una sfida contro il tempo praticamente: l’autonomia delle batterie, a quelle temperature, è di 4-5 minuti. Tenevo quelle di riserva nelle tasche dei pantaloni, in modo che stando più vicino al corpo si scaldassero, quando si scaricavano le altre poi le cambiavo, scattavo altri 5 minuti e ricambiavo.
Questo per me è stato il primo viaggio in un contesto del genere e, per quanto faticoso e doloroso, è stata una delle esperienze più incredibili che abbia fatto nella vita.

Il paesaggio che ti sei trovato di fronte doveva essere a tratti straniante…
È uno scenario quasi lunare: uno spazio bianco infinito che si perde a vi-sta d’occhio e, soprattutto, è avvolto nel silenzio più assoluto. Distese bianche a perdita d’occhio con niente intorno. Uno degli scatti che mi pia-ce di più di questo viaggio ritrae una donna che cammina in questa distesa bianca che quasi si confonde col cielo: è quasi sera e c’è la luna all’orizzonte. Che avrei visto dei posti pazzeschi me lo immaginavo: quello che non sapevo è che il viaggio in Siberia sarebbe stata un’esperienza di vita che è andata ben oltre il semplice reportage fotografico.

Come vivono i Nenet?
La loro vita è davvero molto semplice: sono allevatori di renne, pescatori, e poi vivono tanto di baratto. In inverno però la loro giornata è molto corta: si concentra in base alle ore di luce, che per buona parte dell’anno non superano le 4, 4 ore e mezzo. In questo lasso di tempo si concentra la maggior parte delle attività, dal raccogliere la legna al pulire il chum, ovvero il loro tipo di tenda.

Loro come si riparano dal freddo?
Principalmente con la pelle di renna: è il materiale di cui sono interamente costruiti i loro abiti, ma anche le coperte, il rivestimento del chum, gli stivali e le moffole. Ogni famiglia ha le sue tradizioni in questo senso.

Attraverso le tue foto hai raccontato molto bene l’effetto del freddo sulle vite e i corpi dei Nenet: guance arrossatissime, capelli ghiacciati e rughe profondissime. C’è qualche altro aspetto che hai scoperto attraverso il tuo obiettivo?
Quello che ho voluto trasmettere è che questo è un popolo che vive in condizioni durissime per gran parte dell’anno, ma si adatta in maniera incredibile. Un altro aspetto che mi ha affascinato è quello della pesca, o di come loro facciano a ricavare l’acqua potabile. Che non hanno, chiara-mente, e non possono ricavare dalla neve, che puoi bere in condizioni di emergenza ma non a lungo andare perché è priva di sali minerali e di tut-te le sostanze nutritive di cui abbiamo bisogno. Dallo stesso lago in cui vanno a pescare ricavano dei blocchi di ghiaccio e poi li sciolgono scaldandoli nel chum per ricavare l’acqua da bere.

Come si rapportavano con te?
Inizialmente la famiglia che mi ha ospitato era molto silenziosa, anche la vita dentro al chum era piuttosto separata: mi studiavano, mettiamola così. In più loro non parlano altra lingua se non la loro, quindi cercavamo di comunicare a gesti, cosa che a noi italiani riesce piuttosto bene devo dire. Una volta rotto il ghiaccio sono quindi riuscito a farmi capire, e anche accettare credo. Solo guardarsi negli occhi in maniera sincera è un grande strumento di comunicazione. E se i grandi sulle prime sono stati un po ‘ più diffidenti, con i bimbi è stato tutto veramente immediato. I Nenet non hanno molto e i bambini giocano in maniera semplice, come da noi si faceva una volta: si tirano la neve, fanno la lotta, si rincorrono. Per me è stato un po’ come tornare negli anni Ottanta, certo in condizioni più estreme, ma era da un po’ che non vedevo bambini così concentrati su loro stessi e sui loro simili. Entrare in relazione con loro forse è stato più facile perché hanno meno barriere: ho legato fin da subito in modo molto profondo con Olga, che è la bimba con le guance rossissime la cui foto è stata scelta per la cover di Sidetracked.

Per i Nenet è come se il tempo si fosse fermato e sicuramente per un occidentale entrare in contatto con queste popolazioni è qualcosa di arricchente, non si corre però il rischio, sovraesponendo la loro immagine, che la comunità prima o dopo si snaturi?
Io credo che loro siano contenti di venire raccontati: poi c’è da tenere presente che il viaggio nelle loro terre è molto duro, non si può andare lì senza una guida che, almeno nel mio caso, ha sempre insistito molto sull’essere rispettosi, anche perché loro sono rimasti molto puri.

Secondo te non sono attratti dalla modernità?
Considera che per i Nenet la scuola è obbligatoria fino ai 19 anni: i bambini lasciano la casa dei genitori a sei anni, Olga, che adesso ne ha cinque, partirà il prossimo anno: trascorrono tutto il tempo nella città più vicina e poi, una volta terminato il ciclo di studi, scelgono se tornare a vivere in maniera nomade o continuare la vita e gli studi in città. Quello che mi ha molto colpito è il fatto che la maggior parte di loro scelga di tornare indietro.

In occidente siamo molto attratti dal discorso del “nomadismo”, oggi è cool soprattutto quello digitale. Ma la vita delle popolazioni nomadi in realtà è molto dura. Ogni quanto si spostano i Nenet?
Ogni dieci giorni, per altro facendo un percorso stranissimo: se lo guardassimo dall’alto sarebbe come vedere disegnare dalla loro carovana il simbolo di infinito. Durante l’inverno spostano l’accampamento di continuo facendo il cerchio di sinistra e arrivando più meno all’inizio della primavera nel punto di congiunzione tra i due cerchi: qui lasciano gli attrezzi necessari per l’inverno e i vestiti più pesanti, li nascondono e poi percorrono il resto del cerchio durante tutta l’estate. Poi ritornano nel punto di giunzione prima dell’inverno e recuperano tutte le loro cose.

C’è qualcosa che credi i Nenet ti abbiano insegnato?
La semplicità: vivono davvero con niente. E lo so che è retorica, ma basta davvero poco per essere felici, noi occidentali abbiamo terribilmente troppo. Una settimana con loro mi ha fatto ritrovare i valori delle famiglie di una volta: anche solo il fatto, che è tanto basilare quanto importante, di preoccuparsi l’uno dell’altro, preoccuparsi che tutti stiano bene e abbiano mangiare. Nel nostro avere troppo sfruttiamo anche troppo il pianeta che ci ospita.

I Nenet probabilmente da questo punto di vista sono più rispettosi…
Assolutamente, hanno molto rispetto del territorio in cui vivono. Quando smontano l’accampamento non rimane nessuna traccia del loro passaggio, non vedi nulla a terra.

Hai in programma di tornare a visitarli? Magari in estate?
Sicuramente sì, anche se l’idea che mi sta ronzando per la testa ultimamente è quella di un reportage sugli allevatori di renne mongoli, pare che abbiano un rapporto molto intimo con questi animali, quasi simbiotico, si sono infatti guadagnati l’appellativo di uomini renna. In Siberia però vorrò sicuramente tornarci presto o tardi: quando la neve si scioglie le distese di prati che uno si trova davanti sono infinite, cambierebbe sia lo scenario che la quotidianità dei Nenet, quindi la motivazione è duplice.