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L’Islanda in bici, un viaggio in solitaria

Ci sono viaggi semplici, altri complicati, altri ancora impossibili, quelli che ti lasciano qualcosa e quelli che invece ti fanno soltanto venir voglia di tornare a casa. C’è chi invece sogna alcuni viaggi e vuole farli a tutti i costi e questa è una di quelle storie. Avete mai visto delle foto dell’Islanda e anche voi vi siete innamorati di quei posti? Anche per Steve è stato così! Volete sapere come è finita? Ha percorso 3000Km costeggiando con la sua bici in solitaria tutte le coste dell’Islanda.

Tutto è iniziato da ragazzino, tra atlanti e National Geographic, fantasticando sulle fotografie dei paesaggi nordici. Ho sentito fin da subito un’attrazione particolare per quell’isola al di sotto del circolo polare artico: l’Islanda.

Grazie ai miei genitori sono cresciuto instaurando un forte legame con la natura e con il tempo mi sono appassionato sempre più al mondo dell’outdoor, dell’alpinismo e anche della fotografia. Durante gli studi universitari ho dedicato tutto il mio tempo libero alla montagna, dormendo in tenda e avendo così la possibilità di scegliere sempre la vista migliore con la quale svegliarmi. Con il passare degli anni ho acquistato e testato molta attrezzatura per capirne vantaggi e difetti in base alle diverse condizioni climatiche, in particolare con pioggia, vento e neve. Una volta laureato, ho alternato la lunga settimana lavorativa al breve weekend in alta quota, ma dopo tre anni di questa routine, ho sentito il bisogno di un cambiamento, di immergermi ancora di più nella natura, allontanandomi da tutto per andare alla ricerca di qualcosa di sconosciuto che potesse migliorarmi nel profondo. Inevitabilmente ho pensato: Islanda. Ricordo bene quella sera: una tazza di buon caffè, una lampada a luce soffusa, la mappa srotolata, la guida alla mano e, in sottofondo, la traccia Only the Winds di Olafur Arnalds.

Ho iniziato così a segnare le tappe riflettendo su come affrontare il mio primo viaggio. La decisione finale: Islanda in solitaria con tenda e mountain bike. Libero di affrontare qualsiasi situazione senza esser limitato da nessuno. In un mese, sfruttando tutto il tempo a disposizione dopo il lavoro, ho tracciato e stimato il percorso: 3000 km da percorrere in un tempo indefinito. A marzo ho comprato il biglietto aereo con destinazione Keflavík in data 2 giugno e ho presentato, senza alcuna esitazione, le dimissioni dal mio lavoro a tempo indeterminato. Una volta attrezzata la mia Wilier Triestina con portapacchi resistenti e borse impermeabili, ho iniziato ad allenarmi duramente ogni giorno. Il grande momento è arrivato in fretta. La sera precedente la partenza non sono riuscito a chiudere occhio per via dell’adrenalina in corpo. Nel tardo pomeriggio, dopo aver salutato amici e famiglia, ho caricato i bagagli nell’auto di mio fratello. Lui, assieme alla sua ragazza, mi ha accompagnato all’aeroporto di Milano Malpensa. A mezzanotte in punto l’aereo è decollato, dando così inizio al mio primo indimenticabile viaggio.

On the road

Alle 2:30 del mattino, dopo quattro ore e mezza di volo e con due fusi orari in meno, dall’oblò intravedo la prima alba irradiare i ghiacciai e le nere coste islandesi: al nord, in estate, il sole rimane sempre sopra l’orizzonte. Atterro a Keflavík e trovo 7°C con pioggia leggera. Ritiro i bagagli e mi dirigo all’esterno dell’aeroporto dove, in una cabina attrezzata per i biker, monto in tranquillità la mia Mtb. Sono carico e pronto a pedalare. Studio un attimo la mappa e inizio col sorriso il mio percorso sotto la pioggia, allontanandomi man mano dalle strade principali. Ogni cosa mi è nuova: paesaggi spogli, la terra scura vulcanica, l’odore di zolfo di alcune pozze termali, il cinguettio di uccelli tra le rocce, i cavalli islandesi dal particolare ciuffo sulla criniera, i coloratissimi fari, le caratteristiche chiese e il profumo del pesce essiccato. 

Arrivo a Valahnúkamöl, una grande scogliera, sulla quale le onde dell’oceano si infrangono sorvolate dai tipici uccelli dal becco colorato: i Puffin. 80 km più avanti ecco la prima cittadina, Grindavík. Mi fermo alla stazione di servizio per acquistare una bombola di gas da campeggio e al supermarket prendo un po’ di cibo, tra cui lo yogurt locale Skyr. Pedalo ancora e, dopo una decina di chilometri, trovo un posto desolato per accamparmi. Monto la mia fidata tenda Ferrino da spedizione ed inizio a cucinare la cena. Nel frattempo metto in carica le batterie della macchina fotografica grazie ad un piccolo pannello solare. Alle 22:00, con il sole ancora alto in cielo, mi addormento per la stanchezza. 

Al risveglio in terra islandese preparo un caffè con il mio fornellino, mangio lo yogurt, smonto la tenda e risistemo le borse sui portapacchi. Mi dirigo verso le alte scogliere Krisuvikurberg, dove incontro Michele, un biker dalla Sardegna. Leghiamo fin da subito e decidiamo di pedalare assieme per un paio di tappe. Il meteo cambia in continuazione e, dopo molti chilometri nella nebbia, montiamo le tende a Selfoss, in un campo circondato da alte siepi riparati così dal forte vento. 

Nei giorni seguenti visitiamo le attrazioni del Circolo d’Oro: il Parco nazionale di Þingvellir, la faglia tra le due zolle tettoniche (americana ed euroasiatica), le cascate Öxarárfoss, Brúarárfoss, Gullfoss e i due geyser, nominati Geysir e Strokkur; quest’ultimo dopo un paio di minuti di bollore erutta verso l’alto un getto d’acqua bollente.

Da Flùðir ci spostiamo verso sud, percorrendo 80 km principalmente in discesa, per allacciarci alla strada principale: la Ring Road n°1. Alla fine del tragitto ci imbattiamo in due incredibili cascate: Gljúfurárfoss, raggiungibile passando dentro una grande fessura nella roccia, e Seljalandfoss, attraversabile grazie un piccolo sentiero alle sue spalle. Lì vicino ci accampiamo al suggestivo campeggio Hamragarðar, dove ne approfitto per fare una doccia bollente. L’acqua, arrivando direttamente dal sottosuolo, ha quell’inconfondibile odore di zolfo. Ceniamo e poi lentamente ci addormentiamo cullati dal suono delle due cascate, che pur in lontananza, fanno sentire la loro presenza.

Di prima mattina saluto Michele che è già in partenza, mentre io decido di visitare con calma la zona. Vengo attirato da un piccolo shop dove una ragazza cuce a mano l’ultima parte di un Lopapeysa, il tipico maglione di lana islandese. Lo indosso, mi sta alla perfezione e lo compro. Con il mio nuovo caldo acquisto, pedalo fino alla cascata Skógafoss. Resto impressionato dalla sua forza: l’impatto dell’acqua sulle rocce è talmente forte da far tremare il cuore. 

Proseguendo lungo il sud della Ring Road, passo dalla sabbia vulcanica di Sólheimasandur per vedere il relitto dell’aereo Douglas DC-3, alla ripida sterrata che porta al promontorio Dyrhólaey.

Qui, prima dell’arrivo di una fitta nebbia, riesco a vedere il colore artico dell’oceano fondersi con il grigio antracite della spiaggia. Scendo a Reynisfjara dove trascorro quasi un’ora seduto su di uno scoglio ad ammirare tutto ciò che mi circonda: lo scrosciare delle onde sempre più impetuose che si avvicinano ai miei piedi, le colonne di roccia basaltica alle mie spalle e, all’orizzonte, i due enormi faraglioni guardiani dell’oceano. Dopo una faticosa salita per aggirare la spalla della montagna, sotto il diluvio, inizio a scendere a tutta velocità verso il camping nella cittadina di Vík í Mýrdal. Fortunatamente riesco a sistemare i vestiti bagnati in caldaia e dopo una rigenerante doccia, ceno e mi ritiro nella mia tenda.

Al mio risveglio la temperatura è sotto lo zero. Prendo i vestiti asciutti, ma dei miei guanti non c’è traccia. Innervosito, rimedio subito mettendomi due calzettoni in lana d’alpaca che solitamente uso per le escursioni in montagna. In sella alla mia Wilier pedalo una ventina di chilometri ma, a causa della pioggia mista a raffiche di vento, i calzini sulle mani iniziano a cristallizzare. Proseguo per tutto il pomeriggio facendo una breve sosta al suggestivo canyon Fjaðrárgljúfur, per poi accamparmi al camping di Kirkjubæjarklaustur. Qui, in questo piccolo paesino, conosco due generosi biker polacchi che, alla vista delle mie mani screpolate, mi regalano un loro paio di guanti di scorta in cambio di una buona birra al bar locale. 

Il giorno seguente, mentre pedalo con le mani al caldo, intravedo in lontananza il più grande ghiacciaio d’Europa: il Vatnajökull. Arrivo al meraviglioso Parco nazionale di Skaftafell, dove monto la tenda e faccio amicizia con Adam, un ragazzo statunitense. Entrambi ci incamminiamo fin sotto la cascata Svartifoss ornata di colonne di roccia basaltica. Qui, prima di rientrare al camping, facciamo il bagno con il sole di mezzanotte.

Riposato completamente, faccio colazione e saluto Adam. Altri 60 km, aggirando il vulcano innevato Hvannadalshnjúkur, e  arrivo a Jökulsárlón, una laguna di origine glaciale che costeggia il Parco nazionale del Vatnajökull. 

Solita routine mattutina e sono pronto ad affrontare 160 km. Lungo la strada asfaltata, circondata da un paesaggio battuto dal vento, prendo una sterrata che mi conduce sul bordo dell’immensa cascata Dettifoss. Qui mi siedo per pranzare, ammirando dei meravigliosi doppi arcobaleni. Riprendo la Ring Road, passo per Hverir (sito geotermico con pozze di fango e fumarole attive) e, dopo l’ultima grande salita, scendo a tutta velocità verso il camping sul lago vulcanico Mývatn. Una volta cenato, lavo la biancheria e la stendo al vento. A mezzanotte mi addormento con il tramonto che incendia l’orizzonte di mille sfumature, ripagando tutte le fatiche della giornata.

Riposo fino a tardi e nel pomeriggio percorro una sterrata di 60 km per Húsavík, località indiscussa per il Whale Watching. Tanta polvere e pecore lungo la strada sconnessa e verso le 22:00, con l’aria fresca che soffia dalla baia e il sole caldo ancora alto in cielo, arrivo alla cittadina. Acquisto il biglietto per vedere le balene il mattino seguente e lungo il porto mi fermo a mangiare un fish and chips, gustandolo su di un terrazzino in legno. Con occhi lucidi ammiro le cime innevate e i velieri specchiarsi nel Mar di Groenlandia. Felice mi dirigo al campeggio.

Alle 7:00 mi rifocillo con una veloce colazione e salgo sul veliero dove trascorro quattro ore indimenticabili. I Puffin volano a pelo sull’acqua seguiti da alcuni delfini in lontananza e, all’improvviso, sento degli sbuffi e vedo finalmente emergere le balene. È la prima volta in vita mia e rimango sbalordito dalla loro grandezza. Dopo un whiskey con il capitano rientriamo al porto. Saluto lo staff e pedalo arrivando nel tardo pomeriggio all’immensa cascata Goðafoss. Nelle vicinanze allestisco l’accampamento per riposare.

Nella tappa seguente tantissima fatica. Pedalo in salita a ritmo di “un, due, tre, dai” senza metter giù piede e senza sporgermi indietro, per evitare il sollevamento della ruota frontale. Superato il lungo passo di montagna, scendo ad una velocità di 90 km/h con vista sulle cime innevate, raggiungendo Akureyri. Nel centro della cittadina, mangio degli squisiti Pylsur (hot dog locali) in un food truck, lasciando un piccolo spazio anche per i buonissimi dolci della vicina pasticceria. Prima di andare a letto, mi gusto una birra fresca nel Bikepackers Pub.

Svegliato verso mezzogiorno, decido di muovermi in direzione dei fiordi del nord, perché il forte vento rende impraticabile la strada verso ovest. Passo per Hauganes scorgendo in lontananza alcune balene e, attraverso tre tunnel, arrivo a Siglufjörður. Una forte tempesta mi obbliga a sistemare la tenda in un piccolo parchetto senza riparo. Qui, un altro palo della tenda si spezza, ma riesco a ripararlo con l’ultimo splint.

Al mattino seguo la bellissima costa in un continuo saliscendi facendo una breve sosta al paesino di Hofsós per prendere un po’ di cibo. Successivamente al centro di Sauðárkrókur mi fermo in un pub dove incontro Johannes, un altro biker con il quale stringo amicizia. 

Tra birre, discorsi sulle nostre vite e mille risate, capiamo subito che abbiamo molto in comune, soprattutto lo spirito d’avventura, e decidiamo di pedalare assieme. Superiamo Varmahlíð, Blönduós e percorriamo 70 km sotto la pioggia battente tra fango e pozze piene d’acqua. Arriviamo a Hvítserkur, un faraglione di origine basaltica sulla costa orientale della penisola di Vatnsnes. Montate le tende, passiamo tutta la serata a ridere. 

Condivisa una squisita colazione a base di porridge con mirtilli freschi, ci fermiamo in un piccolo localino nelle vicinanze. Il gestore ci offre, oltre al caffè, un assaggio della tipica Hákarl: carne di squalo lasciata marcire all’interno di casse di legno sotterrate e poi essiccata al vento in modo da perdere così tutta l’ammoniaca presente. Per toglierci il gusto nauseabondo dalla bocca, il proprietario gentilmente ci regala un’intera bottiglia di Brennivín, acquavite locale, da portare con noi in viaggio. Ringraziamo e riprendiamo la strada sterrata. Ad un certo punto, dai crinali delle colline, scende una mandria di cavalli selvaggi che affianca, per molti chilometri, le nostre pedalate. Giunti ad Hvammstangi, vado in un’officina per farmi tagliare nuovi splint da usare in caso di bisogno. Al supermarket prendo un paio di birre e della carne di agnello da cucinare alla brace. Una volta al camping ceniamo e, arrivata una certa ora, montiamo le nostre tende. 

Dormiamo fino a tarda mattinata per riprendere le forze ed essere pronti ad affrontare la F586 Haukadalsvegur, una delle più belle e pericolose sterrate, che prevede l’attraversamento di quattro guadi. Dando uno sguardo all’applicazione Veður sullo smartphone, che permette di vedere l’accessibilità della strada, leggiamo la scritta rossa “impossibile passare”. In cerca d’avventura, io e Johannes ci inoltriamo. Dopo la lunga salita iniziale, costeggiamo dall’alto i vari canyon; il suono delle cascate rimbomba al loro interno. 

Superiamo con discreta facilità i primi tre guadi e verso le 23:00 tocca all’ultimo, il più pericoloso. Tolte le borse dal portapacchi, ci spogliamo e lanciamo il tutto sull’altra sponda. Con la bici in spalla e con l’acqua gelida all’ombelico, attraversiamo con determinazione il fiume. Riusciti nell’impresa, ci asciughiamo in fretta e pedaliamo entusiasti fino ad arrivare alla pozza geotermale Guðrúnarlaug. Dopo un meritato bagno bollente, ci accampiamo nelle vicinanze.

È luglio, prendiamo la Vestjarðavegur, ovvero la strada per i fiordi dell’ovest, dove aumentano le difficoltà sia per la distanza delle cittadine sia per il forte vento che soffia dal circolo polare artico. Passiamo la notte a Reykhólar per poi pedalare 140 km lungo la costa, accampandoci nel momento del bisogno. 

Qui salite ripide e vento estremo ci obbligano in alcuni tratti a proseguire spingendo la bici a mano. La fusione tra albe e tramonti dipinge di mille sfumature i fiordi, ripagando tutta la fatica. A Flókalundur ci rilassiamo entrando prima nella bollente pozza geotermale Hellulaug e poi nel gelido oceano. La giornata si conclude in un piccolo ristorante dove ceniamo gratis con tre piatti di zuppa di pesce riscaldata.

Il giorno seguente, dopo aver pedalato su sentieri fangosi, giungiamo ai piedi della maestosa cascata Dynjandi, caratterizzata da un’altezza di 100 m spezzata da sette salti. 

Abbiamo già visto gran parte di questi meravigliosi fiordi, quindi decidiamo di comprare un biglietto per il traghetto verso la penisola Snæfellsnes. Lungo il tragitto facciamo scalo a Flatey, isola nella baia del Breiðafjörður, che in un paio d’ore visitiamo tutta. 

Verso le 21:00 attracchiamo a Stykkishólmur, dove condivido un’ultima cena con il mio compagno d’avventure Johannes, prima di salutarlo con un caloroso abbraccio. E poi ecco, torno nuovamente alla mia solitaria “normalità” e mi accampo per la notte in un prato nelle vicinanze.

Nel primo pomeriggio pedalo per 60 km contro vento e sotto nubi minacciose, fermandomi prima al museo dello squalo Bjarnarhöfn e poi a Grundarfjörður. Il tempo peggiora e in un camping desolato, cerco di ancorare per bene la tenda a terra, sfruttando tutta l’attrezzatura possibile. Alle 3:00 del mattino, in piena tempesta, sbircio dalla veranda e vedo i camper quasi ribaltarsi a causa del vento che soffia a 180 km/h. In velocità tolgo tutto dall’interno della tenda, ma la forza delle raffiche spezza altri pali. Trovo riparo nel bagno del camping, dove rimango sveglio fino alle 7:00. Appena la tempesta mi dà un po’ di tregua, raggiungo un bar per riparare i danni e rifocillarmi con una buona colazione. Qui, dopo aver chiacchierato con la proprietaria, ricevo in regalo un Vegvisir in legno, una bussola runica simbolo di protezione per i viaggiatori. Finalmente esce un timido sole e il vento si placa. Ringrazio dell’ospitalità e pedalo verso una nuova meta, la montagna spigolosa più caratteristica d’Islanda: il Kirkjufell. Verso l’ora di cena mi fermo al campeggio di Ólafsvík, dove riesco a recuperare il sonno perso la notte precedente, riposando in tranquillità.

All’alba sono già in sella alla mia mtb e, passando il piccolo villaggio di Rif, vengo preso di mira da uno stormo di uccelli. Cerco di scacciarli con il cavalletto fotografico e pedalo il più veloce possibile. Il passaggio a Hellissandur è decisamente più tranquillo e imbocco un sentiero che porta sotto la cascata Svöðufoss; alle sue spalle emerge in lontananza il ghiacciaio Snæfellsjökull che ricopre il vulcano citato nel romanzo Viaggio al centro della terra di Jules Verne. 

Aggiro quest’ultimo e in tarda serata giungo ad un suggestivo punto panoramico che si affaccia su Djúpalónssandur, meravigliosa spiaggia nera vulcanica. Non resisto alla tentazione e scendo per poter raccogliere alcuni sassolini come ricordo. 

Qui il tempo si tramuta ancora in tempesta, ma riesco a risalire in fretta. Lego la bici ad una staccionata, prendo le borse e questa volta mi riparo subito in un bagno comune lì vicino. Trascorro tutta la notte sveglio, ma al sicuro. Al mattino una gentile ranger del Parco nazionale mi dà uno strappo con la sua enorme Jeep fino al centro turistico del faro di Malarrif. Qui preparo il pranzo e poi lascio alla reception la mia mtb per camminare fino a Londrangar, una spettacolare scogliera basaltica. Riprendo a pedalare sotto il diluvio e arrivo ad Arnarstapi, dove ceno con un buonissimo fish and chips ad un food truck prima di montare la tenda di fronte al monte piramidale Stapafell. 

Al risveglio il cielo è stranamente azzurro e il sole scalda. Cammino passando prima per il monumento Bárður Snæfellsás, un gigantesco troll di pietra, e successivamente su uno stretto e vertiginoso ponte naturale dal quale si può ammirare il Gatklettur, un arco di roccia basaltica lungo le scogliere. Mi rimetto a pedalare accompagnato per 80 km da un vento che soffia da tutte le direzioni. Arrivo stremato al camping Elborg, dove anche gli uccelli sono in difficoltà con le forti raffiche. Decido quindi di non piazzare la tenda per questa notte ed usufruisco della struttura attrezzata messa a disposizione dal campeggio. Colgo l’occasione: faccio una doccia, cucino qualcosa ai fornelli e riposo un po’ su un comodo divano. Il mattino seguente proseguo verso sud con molta calma, solo per 60 km, lungo la strada pianeggiante, fino ad arrivare alla cittadina di Borgarnes, dove mi accampo in un prato desolato e dormo in totale tranquillità.

È il 16 luglio e mi aspetta l’ultima tappa tanto desiderata, la più impegnativa: 120 km verso la capitale Reykjavík. Mi alzo con grande energia, pronto a dare il meglio. Faccio un po’di spesa e mi dirigo a sud dove imbocco la strada per il vasto Hvalfjörður, il fiordo della balena. 

Il vento arriva così forte che mi costringe a pedalare fuori sella con la bici inclinata. Mi riparo lungo la strada, all’ingresso di un museo chiuso, per pranzare e, in senso contrario alla mia direzione, sopraggiunge un altro biker impegnato nella sua prima tappa. Non ricordo il nome, ma ricordo la sua ingenuità: senza attrezzatura per cucinare, senza cibo, solo una vecchia mappa ormai datata per i guadi e una tenda leggera, inadatta ai venti islandesi. A quel punto gli mostro tutti i miei pali riparati e gli dico: “180km/h man, the speed of the wind”. Il suo sorriso si trasforma in un’espressione preoccupata. Lo incoraggio con alcuni consigli, gli offro metà della mia scorta di cibo e lo saluto con un grande in bocca al lupo. Pedalo per moltissimi chilometri senza più incontrare nessuno, in un continuo saliscendi lungo il fiordo. Il mio unico compagno è il vento, talmente forte e presente da costringermi a passare mezz’ora aggrappato a un palo della segnaletica. E poi finalmente ecco la capitale. Alle 21:00 arrivo al grande camping di Reykjavík. Quando entro nella reception mi trovo di fronte ad una parete con una grande cartina geografica dell’Islanda. Con gli occhi traccio tutto il mio percorso, il mio “timelapse” del viaggio. Inevitabile, scoppio a piangere dall’immensa gioia. Dopo aver pagato la piazzola per la tenda, faccio una doccia calda, ceno con il restante cibo e mi addormento con il sorriso.

Il giorno seguente, dopo colazione, acquisto il volo di ritorno per Milano Malpensa in data 24 luglio. Pedalo per la città di Reykjavík passando per la via principale tra pub e negozi tipici, seguendo con l’olfatto le scie profumate delle pasticcerie e ammirando i coloratissimi edifici lungo la costa. Visito la chiesa di Hallgrímskirkja scolpita come colonne di basalto, l’auditorium Harpa con le sue facciate caleidoscopiche e il Sólfar una scultura simile a un’imbarcazione vichinga, che si affaccia sull’oceano a simboleggiare le nuove scoperte.

Manca ancora una settimana al rientro a casa e mi organizzo per fare uno dei trekking più selvaggi nel centro Islanda: Landmannalaugar-Þórsmörk. Compro il biglietto del bus per arrivare all’attacco del percorso, faccio un po’ di spesa e vado a riposare in tenda per prepararmi al giorno seguente.

Al mattino lascio la mtb e parte dell’attrezzatura in un’area custodita del camping, portando con me solo il necessario per il trekking. In bus faccio amicizia con due simpatiche ragazze, Malin e Alexandra. Passiamo tutto il tragitto ridendo e arriviamo al campo base Landmannalaugar, situato nella riserva naturale Fjallabak, negli altopiani del centro Islanda. Qui il panorama è meraviglioso, tra le montagne multicolori di riolite, le ampie distese di roccia lavica e le fumanti sorgenti termali. 

Assieme alle nuove compagne di viaggio, seguo il sentiero sui ripidi crinali di sabbia rossastra e nera. Dopo una decina di chilometri camminiamo su un’immensa distesa di neve e ghiaccio, fino ad arrivare al rifugio alpino Hrafntinnusker dove cuciniamo sui nostri fornelletti. Alla sera, il sole riflette sulle bianche cime i suoi colori ambrati lasciandomi sbalordito. 

Mi fermo al rifugio Emstrur solo per cucinare una zuppa calda, prima di ripartire verso gli ultimi venti chilometri. Con passo deciso, sotto la pioggia, attraverso molti guadi profondi e una fitta coltre di alberi e arbusti, fino a giungere all’ultimo rifugio. Finalmente, davanti a me, ecco la maestosa catena montuosa di Þórsmörk, situata tra i due ghiacciai Eyjafjallajökull e Mýrdalsjökull. Con questo incredibile panorama, mi accampo in un piccolo prato vicino al fiume Krossa e ceno con il poco cibo che mi resta.

La mattina seguente, rientro in bus a Reykjavík e trascorro i pochi giorni prima della partenza godendomi appieno questa città. L’ultimo giorno riesco a trovare con facilità una scatola per la mtb in un negozietto di biciclette, così da poterla imbarcare in aereo. La sera, per festeggiare il vicino rientro a casa, cucino alle braci una costata d’agnello e assaporo delle buonissime birre locali. Dopo una passeggiata in centro rientro al camping per una doccia calda e trascorro la notte in quella tenda ormai logorata. 

Al risveglio, preparo i miei bagagli e con il bus navetta ritorno all’aeroporto di Keflavík. Nel tardo pomeriggio salgo in aereo, seduto sullo stesso posto numerato, vicino all’oblò. Motori accesi, è il momento di tornare a casa. 

Man mano che mi allontano, vedo quell’indimenticabili paesaggi farsi sempre più piccoli e mi commuovo per tutto ciò che ho vissuto in due mesi di viaggio. A mezzanotte atterro a Milano Malpensa e rimango subito stupito dal clima afoso e dal buio a cui non sono più abituato. All’uscita dell’aeroporto ci sono mio fratello e la sua ragazza pronti a darmi un caloroso abbraccio. Durante il tragitto in auto, mentre racconto loro la mia esperienza, mi guardo attorno sentendomi stranito da tutto: le strade, il traffico, la vegetazione, le cittadine e anche la mia casa. Sotto il porticato ci sono i miei genitori ad aspettarmi e pronti ad accogliermi a braccia aperte.

Quella notte, ormai disabituato alla comodità del mio letto, faccio fatica a chiudere occhio. Ripenso incredulo a tutto quello che sono riuscito a fare. Ho spinto oltre ogni limite le mie capacità, ho impresso nella mia mente e nel mio cuore un’infinità di momenti ed emozioni, ho raggiunto un grande sogno e mi sento profondamente arricchito nell’animo.

Metto le cuffie, chiudo gli occhi e mi lascio trasportare da quella traccia che ancora oggi riesce a farmi rivivere ogni istante di questo indimenticabile viaggio: 

“Only the winds”.

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