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Tra la neve e la terra: Luca Dalpez

Dal Freeride World Qualifier e la scena punk hardcore trentina all’azienda agricola biologica il passo è più breve di quanto si possa pensare, lo capisci quando ti ritrovi all’après ski nel bar storico di Fai della Paganella e ti capita di fare due chiacchiere con Luca Dalpez.

Splitboarder e freerider, maestro di snowboard, agricoltore biologico in Val di Non, la valle della monocoltura delle mele, e attivista: Luca prende piuttosto sul serio il suo rapporto con natura e controcultura in tutti gli ambiti in cui è impegnato. Lo conosco da qualche anno ormai, precisamente da quando mi è capitato tra le mani un manifesto che vede il suo nome tra i primi firmatari. Si trattava di una carta contenente una serie di dichiarazioni di principio in tema di sport di montagna e sostenibilità, una sorta di chiamata a raccolta destinata ai praticanti di tutte le discipline outdoor con una volontà comune: quella di rivendicare il valore in sé degli spazi naturali.

“Ci impegneremo per influenzare le scelte politico-economiche verso la conservazione degli ambienti naturali e verso uno sviluppo sostenibile dei territori e della cultura outdoor” così recita uno dei punti del programma di The Outdoor Manifesto, ed è su idee come questa che, pur se in modo sempre riservato, Luca sembra basare ogni sua azione. Iniziative del genere funzionano quando alle belle parole seguono scelte di vita concrete a dare l’esempio. Sarò forse di parte, perché quella chiamata all’azione mi ha convinta e ho poi preso parte all’associazione, ma l’esempio vissuto da Luca è una di quelle cose che racconto sempre volentieri nella speranza che ispiri altri così come ha fatto con me.

Giusto il tempo di ordinare la prima birra e subito attacca a raccontare di una recente discussione tra maestri. Mi parla a bassa voce perché in quel bar si conoscono tutti, il tema: un ipotetico ampliamento delle aree sciabili in una zona boschiva. “Una stronzata” mi confessa senza mezzi termini. L’argomento è complesso e oggi parecchio dibattuto, e non è questa la sede per approfondirlo come merita.

Quello che è chiaro è che non dev’essere facile trovare un equilibrio tra lavoro e convinzioni personali quando ti trovi al centro dell’occhio del ciclone. Gli chiedo se siano in tanti, in valle e fra i maestri, a pensarla come lui: a preferire uno sviluppo fatto di ammodernamento degli impianti esistenti che non importi però ulteriori infrastrutture e consumo di suolo. La risposta ovviamente è no, non sono in tanti, ma sembra speranzoso verso le nuove generazioni.

Non mi impressiona tanto la sua posizione (oggi fortunatamente ci sono sempre più voci a favore di modelli di sviluppo alternativo anche tra gli addetti ai lavori) quanto il fatto che sia sempre pronto a portarla avanti anche nelle piccole discussioni quotidiane, quelle dove faresti meglio a non esporti per non farti nemici inutili, soprattutto in tempi di magra come questo.

Luca non viene da una famiglia di agricoltori, né da una famiglia di sciatori. Lo snowboard è arrivato con l’adolescenza insieme ai tatuaggi e ai centri sociali, e così come l’inchiostro non se ne è più andato. Mi racconta del periodo in cui divideva il suo tempo tra le gare di freeride e i concerti con gli Attrito. In quegli anni il gruppo era in uno dei suoi momenti più attivi, non hanno registrato tanti album ma hanno suonato in una quantità impressionante di live.

La scena punk hardcore trentina è interessante anche per chi non è appassionato al genere, è uno di quegli atti di resistenza pura che nascono per contrasto nei territori troppo chiusi. Ci leggo un’analogia con la scelta di coltivare biologico in Val Di Non. Azzardo la domanda, Luca mi risponde prendendomi in giro: “Non vorrai mica dipingermi come il classico anarchico ribelle militante?” Non gli piacciono le etichette, me lo ripete per tutta la sera.

Non è facile capire la portata di una scelta del genere se non conosci le dinamiche di valle. L’economia e la politica del territorio ruotano interamente attorno alla monocoltura intensiva del melo. I lunghi filari, i teli antigrandine e i capannoni di stoccaggio hanno preso ovunque il posto del paesaggio tradizionale di un secolo fa quando c’erano la vite, i pascoli, i cereali e altri alberi da frutto. La filiera funziona e la produzione aumenta di anno in anno, ma al beneficio economico si accompagnano perdita di habitat e biodiversità, oltre ai rischi legati all’esposizione massiccia ai pesticidi.

In questo contesto se non produci mele devi sbatterti il triplo anche solo per garantirti l’acqua per coltivare. Eppure nel 2020 Luca chiude il negozio di tavole e articoli sportivi che aveva aperto a Cles e con l’aiuto di Elisa, la moglie, decide di dedicarsi a tempo pieno alla coltivazione di fiori e ortaggi. E, soprattutto, lo fa seguendo la filosofia del minore impatto possibile lì dove il resto della valle sopravvive solo grazie a ingenti e discusse quantità di fitofarmaci. Luca si scola la seconda birra e ridendo mi confessa che “quelli del gruppo di acquisto locale, quando gli porto la verdura bio, ci scherzano su e mi chiamano eroe”. Sì, perché per ridurre al minimo l’impatto su tutto il ciclo di coltivazione e distribuzione, dall’estate scorsa, quando possibile, consegna i suoi prodotti anche a domicilio spostandosi in bici.

L’estate nella terra, l’inverno sulla neve. Chiedo cosa l’abbia convinto a cambiare vita, in fondo vendere tavole non dev’essere così male se lo snowboard è la tua passione. Leggo la risposta nella pace del suo sguardo quando mi parla di alzarsi all’alba e passare le giornate seguendo i ritmi della natura. Ritmi duri, ma molto più gratificanti di quelli imposti dalle regole del commercio. A Luca non interessa fare l’eroe, quello che gli piace, mi pare di capire, è tornare a casa dai figli, la sera, ed essere un padre sereno, in ogni stagione dell’anno.

È questa la storia da raccontare, quella di una persona che trova il suo posto seguendo le proprie passioni, senza temere di compiere scelte radicali per farlo.