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Mattia Bertoncini: “È una faccenda umile la corsa”

By Chiara Guglielmina

With Mattia Bertoncini

Nel mondo moderno delle metropoli grigie di smog, ovattate dai clacson del traffico esausto, l’uomo corre per guadagnare tempo. Su in montagna, sulle creste più alte al di là 
delle vacche al pascolo, l’uomo corre per fermarlo.

Ci ostiniamo a cercare una motivazione a ogni costo, alla strenua ricerca di una spiegazione universale. Spesso è la risposta più semplice a nascondere la verità.

 

“Signore, perché corre? Lo fa per la pace nel Mondo? Lo fa per i senzatetto? Corre per i diritti delle donne? Oppure per l’ambiente? O per gli animali?”

“Avevo voglia di correre.” rispose Forrest.

“Non riuscivano a credere che uno potesse correre tanto, senza una ragione particolare.” aggiunse.

 

Nel dialogo tratto dalla celebre pellicola Forrest Gump di Robert Zemeckis spicca forte l’esempio di un uomo capace d’imprese straordinarie, senza motivazioni forzate a giustificarne lo scopo, con la sola cosa che conta come compagna: la volontà.

Oggi ho la sensazione che l’intenzione non sia più un motivo sufficiente a smuoverci. Pare debba esserci uno scopo più alto, a ogni costo. Come se la sola eleganza del movimento alternato di gambe e braccia non bastasse alla corsa. Forrest correva perché aveva voglia di correre. E non c’è nulla di stupido in questo. Piuttosto là, nella ricerca ossessiva di un proposito a tutti i costi, io trovo insensatezza. E un poco di tristezza. Un uomo con uno sviluppo cognitivo inferiore alla norma era il personaggio interpretato da Tom Hanks in Forrest Gump. Mattia non ha nulla di inferiore a nessuno, ma è pieno di quella semplicità che troppo spesso, oggi, non so trovare.

Mattia lo conosco perché è valsesiano, innanzitutto. Poi anche per la fama silenziosa che, a sua insaputa, lo precede. Un gran lavoratore: corre tanto, dice poco, ragiona bene. Non parla mai per dare aria alla bocca, la sua corsa gli ha insegnato che è meglio risparmiarlo per le gambe l’ossigeno. In Valsesia, soprattutto se ci si avventura sotto il massiccio più esteso delle Alpi, succede che qualcosa ti rimanga dentro. Per me, ogni volta, una lezione da ricordare. Qui tutto inizia a bassa quota, tra boschi verdi e facili sentieri. Si superano pascoli e alpeggi, e ancora vacche, rifugi e turisti per arrivare su distese di roccia granitica. Più su quasi nessuno, qualche becco, camosci se si è fortunati e pochi alpinisti esperti. Oltre solo una parete di ghiaccio e pietra: squarci profondi, seracchi pensili e rocce instabili attendono chi ha per meta la vetta del Rosa.

Con Mattia ho fatto un trekking proprio qui, dove quella che inizia come una stretta lingua verde si apre poi su una conca glaciale sorvegliata dalla Punta Giordani, dalla Piramide Vincent, dalla Punta Parrot e ancora dalla nobile Punta Gnifetti.

 

– L’escursione forse terminò prima di quel che leggerete, ma di questi tempi concedetemi l’immaginazione, che è ciò che resta. –

In montagna a ognuno il suo ambiente. Oltre il verde dei monti, c’è un buco lasciato da un asteroide, con le macerie ancora in movimento: lo spazio dei pochi. Questa è la conca del Ghiacciaio delle Piode. Un rifugio prima di un’ascensione. Un riparo tra i giganti.

Mattia mi ha raccontato tanto, muovendosi come il paesaggio. Nel verde degli alberi, sul sentiero dei molti, è rimasto in superficie. Con timidezza ha iniziato a raccontarmi di sé: “Sono Mattia Bertoncini e vivo in Valsesia. Prima che alla corsa, è alla montagna che mi sono legato. I miei nonni hanno sempre avuto le bestie e mia mamma mi ha portato su, tra vacche e capre, che avevo appena quaranta giorni. Da quando ero bambino fino ai diciassette anni le mie estati erano in alpeggio, quando non ero a scuola ero lì. Mi piaceva fare la vita da allevatore, da pastore. Ci si dava sempre una mano e mi piaceva parecchio.” Questo è il Mattia dei 1.500 metri.

Mattia è piccolo quasi quanto me. Il mio affanno nel tenere il ritmo non è giustificabile dalle gambe corte questa volta. Guadagniamo quota in fretta, avvicinandoci ai primi alpeggi e lui, che probabilmente si sente più a suo agio, continua: “La passione per la montagna intesa come esplorazione, come scoperta attraverso il cammino, me l’ha trasmessa mio padre che, in gioventù, è stato un alpinista.”

Nel tono della sua voce, quando il verde inizia a mescolarsi con i primi massi di gneiss, colgo eccitazione. Il racconto di Mattia sale con noi.

“Quando era giovane mio padre ha scalato molte vette. Avevo undici anni quando mi ha portato per la prima volta alla Gnifetti, al Tagliaferro e sul Corno Bianco.”

Classiche valsesiane impegnative classificate come salite per escursionisti esperti, spesso con passaggi di corda. Insomma, non male per un undicenne.

Si china per allacciarsi una scarpa e con gesto spontaneo passa le dite sulla roccia ancora umida di rugiada come a ringraziarla: “Probabilmente da quelle piccole grandi ascensioni con papà ho capito che quegli spazi mi appartenevano.”

Ho l’impressione di iniziare a sentire più presente il Mattia delle quote alte, quello dello sky running. Lo lascio proseguire mentre ci lasciamo alle spalle l’ultimo rifugio prima del grande buco: il Barba Ferrero. L’ultimo avamposto prima dell’anfiteatro granitico e glaciale che ci attende.

In montagna esiste uno spartiacque ben marcato tra le terre basse e le terre alte. Non si vede, ma si sente. Una barriera invisibile che può trarre in fallo. In genere si trova sopra i 2500 metri, ma non v’è regola precisa. Come la famosa porta di Dante, al di là della quale solo 
“la perduta gente”.

Nella mia mente Mattia, come Virgilio, mi spiega che da qui in avanti devo abbandonare ogni sospetto. Solo così, proprio come Virgilio e Dante, potremo entrare nelle segrete cose, ovvero i posti separati dal mondo.

Siamo esattamente su quella linea di confine e anche i suoni cambiano con noi. Il vociare lontano dei villeggianti lascia spazio al ticchettio dei nostri bastoni sulla pietra dura.

Più giù, nel verde, ronzano le api, belano le capre e muggiscono le vacche. Quassù, nel grigio striato, solo qualche bramito in lontananza, un capriolo rantega e marmotte vicine e lontane fischiano. Oltre probabilmente canterà la montagna e griderà qualche falco, un’aquila, forse anche un gipeto e nulla più. Intanto Mattia accelera il passo senza accorgersene e il suo racconto si fa denso.

“Comunque, non ho sempre corso. Ho iniziato con il calcio, pensa te! Ma non ci ho messo molto per capire che non era il mio sport. Ho sempre preferito assumermi le mie responsabilità per intero, nel bene e nel male. Uno sport di squadra non lo permette appieno. Ho cambiato registro, ho partecipato a qualche campestre con la scuola e poi ho finalmente iniziato, grazie all’atletica, a correre.”

Sento che manca ancora qualcosa alla storia. Come se Mattia avesse trovato il “cosa”: la corsa. Ma non ancora “il dove”. Intanto continuiamo a salire e lui, finalmente, rallenta per bere. Siamo quasi nel centro del grande buco. La presenza delle pareti intorno si fa sempre più pesante, ma noi siamo leggeri. Mattia si guarda intorno in un gran respiro e… 

“Alla fine, il primo a spronarmi davvero è stato Carluccio Chiara. -Dai vieni a correre con noi! Vieni a provare!- mi ha detto. Mi ha dato tanto e sento di dovergli molto.” dice chiudendo la borraccia.

“Sai…” continua quasi in un sussurro: “Loro facevano corsa in montagna.”

Quella frase bisbigliata proprio nel centro della conca riecheggia fin dentro le crepe delle nostre montagne e torna a me. La sento forte.

Non faccio tempo a bere a mia volta che Mattia è ripartito. Il Mattia dei 3000 metri.
Capisco dai suoi passi che la sua vera arena è oltre quella conca, fuori da quell’anfiteatro. Il suo è un palcoscenico senza spettatori. Da solo. In alto. Nel silenzio delle creste. 

Come previsto ora intorno a me non sento altro che il mio ansimare e i nostri piedi pestare pietre dondolanti. Il granito si fonde a colate bianche, il “nostro” Rosa ci dà il benvenuto. 

Peraltro, l’appellativo “rosa” dato al massiccio che tanto amiamo non si riferisce al colore delle sue cime all’alba. In lingua antica significava “ghiaccio”. In verità, era ed è il Monte Ghiaccio.

Verso l’uscita dal buco infinito brilla un parallelepipedo rosso, è la Capanna Resegotti. 

Inaspettatamente Mattia, proprio quando iniziano le corde fisse per affrontare la parte più ripida della conca, rincalza:

“Sono cresciuto molto in quei primi anni su e giù per le montagne e d’un tratto, da sedicenne, mi è partito il pallino. Ho voluto iniziare a correre seriamente. Ho capito che potevo piazzarmi bene, che avevo del potenziale, forse.”

Risale la scarpata finale con foga. Le corde fisse diventano il corrimano delle scale di un condominio, sa che ci sono, ma non gli servono. Io preferisco godermi lo spettacolo dal basso, lasciando che si esibisca. Eccolo finalmente: il Mattia dei 4000 metri. Lo sky runner. 

 

Per farla breve:

Nel 2017 arriva la chiamata da parte di Salomon per entrare a far parte del Team: l’umile pastore valsesiano diventa Salomon Ambassador.

Nel 2018 la prima convocazione ai mondiali Under 23 da cui porterà a casa:

– 3° posto al Vertical (2018)

– 3° posto alla Sky Race (2018)

– 2° posto in Combinata (2018)

 -3° posto alla Sky Race (2019)

La silhouette di Mattia, vista da quaggiù, si staglia sul nulla. Gambe e braccia in controluce si alternano con naturalezza tale da sembrare separate dal suolo sconnesso. Capisco in quel momento che non proverò mai una sintonia simile. Sono una dei molti, ma ho la fortuna di conoscere alcuni di quei pochi.

Lo raggiungo in cresta, col mio passo. Una volta lassù ci fermiamo. Oltre solo la Cresta Signal: un’ascesa alpinistica impegnativa sale fino alla Capanna Regina Margherita che, come una madre dolce e austera, ci controlla dall’alto. L’aria che ci colpisce in viso è pungente, ma pacifica. Ci accoglie. Quello spigolo di ghiaccio che separa la Valsesia dalla Valle di Macugnaga è il nostro arrivo. Non siamo alpinisti. Non ancora almeno.

Ci togliamo la maglietta per asciugarci dal sudore e restiamo a petto nudo quel tanto che basta a sentirsi vivi. E probabilmente troppo magri, entrambi. Mentre Mattia mi allunga il tè caldo centellinato fino a quel momento, punta lo sguardo ancora più su.

“Mi viene voglia di salire ancora.” dice tra sé e sé.

Guarda l’orizzonte e continua:

“L’agonismo ti sprona a fare sempre di più. La forza a un certo punto sta nel saper controllare questo impulso. Nel saper trovare un equilibrio. Per salire il viaggio è lungo, come oggi. Ma per cadere ci vuole davvero poco. Uno sport solitario e individuale come questo ti permette di contare solo su te stesso e nella vita, anche se spesso ci illudiamo del contrario, va così.”

Potremmo parlare per ore del come e del perché, ma in fin dei conti, Mattia corre perché correndo è sé stesso. Oggi questo ho visto. E come motivazione mi sembra la più valida tra le possibili.

Prima di ridiscendere al regno dei molti appunto poche righe:

“Quando corro sono altrove.

Non cercatemi. Non risponderò.

Non state in pensiero. Starò bene.”

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