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Mongolia a piedi, Tamara Lunger

Text by Marta Manzoni

Da sapere:

La Mongolia è il paese con la più bassa densità di abitanti al mondo.

Circa un terzo della popolazione è nomade.

La religione predominante è il buddismo tibetano.

La capitale è Ulan Bator.

Gran parte del suo territorio è coperto da steppe, con montagne a nord e ad ovest e il deserto del Gobi a sud.

L’ultima volta che abbiamo incontrato Tamara Lunger stava per iniziare l’estate. Ci aveva raccontato della sua decisione di fermarsi per un anno e di avere pianificato la sua prossima, inusuale, spedizione: una prova del nove per capire se poteva fidarsi ancora del suo corpo, un viaggio a piedi in Mongolia.

 

Raccontaci che percorso avete fatto.

«Io e il mio amico Franz eravamo sul confine Nord-Ovest, abbiamo camminato da Zengel, a piedi, fino ai monti Altaj, e siamo saliti sul Malchin Peak (4.050m). Di solito facevamo colazione e verso le 8.30 partivamo, spesso camminavamo fino alle 20 di sera. Una difficoltà che abbiamo incontrato è stato capire i nomi dei luoghi nei quali ci trovavamo, perché quelli sul GPS non corrispondevano a quelli sulla cartina».

 

Come avete impostato la spedizione?

«Volevamo essere completamente autonomi, quindi avevamo con noi tutto quello che ci occorreva, comprese le tende e il cibo. Abbiamo portato lo stretto indispensabile per evitare che lo zaino fosse troppo pesante. Mangiavamo praticamente solo noodle soup e abbiamo patito un pola fame ma non mi era gravoso, anzi è stato un modo per liberarmi di tanti pesi. Avevo già sofferto la fame in spedizione ma in quell’occasione era stato diverso, ero stata presa dal panico. In Mongolia invece era solo una liberazione».

La Mongolia è un Paese incontaminato, con poche connessioni. Come vi siete organizzati?

«Siamo partiti senza piani particolari, volevamo fare un viaggio free-style, improvvisando. Abbiamo viaggiato dal 10 al 30 settembre, quasi in bassa stagione, senza incontrare turisti. Solitamente non è permesso viaggiare nel Paese senza guida ufficiale ma Franz e io siamo riusciti a trovare un accordo, secondo il quale ogni giorno ci dovevamo collegare per trenta minuti con i militari, che così sapevano dove ci trovavamo. Le persone locali non sono abituate a vedere turisti e quando ci incontravano erano piene di gioia, ospitali, e desiderose di aiutarci. Non potevamo parlare perché nessuno conosceva l’inglese però erano molto aperti, erano curiosi e ci facevano tante domande».

 

Quali sensazioni hai provato durante il viaggio?

«Ho percepito una connessione straordinaria con le persone e la natura, mi sentivo amata in quel contesto così selvaggio e quando sono tornata in città ho provato molta nostalgia. È stato un viaggio introspettivo e profondo e quando è terminato non volevo tornare nella civiltà. Durante le altre spedizioni ero contenta quando riuscivo finalmente a farmi una doccia, mentre questa volta non volevo proprio separarmi dall’ambiente puro e autentico nel quale mi trovavo».

 

Come ha reagito il tuo corpo?

«Per me era importante fare una spedizione dove la meta non fosse la vetta di una montagna. Dovevo capire se potevo fidarmi ancora del mio corpo, perché erano anni che avevo problemi alle ginocchia e ultimamente anche alla schiena. Ogni giorno abbiamo camminato con uno zaino pesante per molte ore e ho sentito che finalmente, dopo tutto il lavoro che avevo fatto su me stessa, il mio corpo giocava in cordata con me. Mi sono resa conto che anche se durante tutto l’anno precedente non mi ero allenata, mi sentivo in forma. Ho pensato che se avessi ripreso ad allenarmi in maniera più intelligente e consapevole, ascoltandomi di più, sarebbe andata sempre meglio».

Quali attività hai praticato durante lo scorso anno?

«Ho arrampicato molto e credo che mi sia servito a dimenticare il dolore. Quando pratichi resistenza provi spesso male da qualche parte e pensi molto, quando scali invece sei immersa nel movimento, completamente concentrata, e questo mi ha dato la possibilità di non pensare troppo al malessere fisico».

 

Quali impressioni hai avuto della popolazione locale?

«Un giorno siamo passati davanti a un Gher, un’abitazione ‘mobile’ tradizionale delle popolazioni nomadi, e quando la famiglia ci ha visti ci chiesto se volessimo entrare per bere un tè. Noi abbiamo ringraziato declinando l’invito perché dovevamo proseguire. Poco dopo le due bambine della famiglia ci hanno raggiunto di corsa consegnandomi un sacchetto pieno di formaggio, allontanandosi subito dopo. Mi sono commossa perché ho pensato che fosse un gesto meraviglioso, di una genuinità e spontaneità difficile da trovare oggigiorno. Mi ricordo le bambine di cinque anni che preparavano da mangiare e i bambini che a dieci anni andavano al pascolo con greggi di capre».

 

C’è un aneddoto in particolare del viaggio che vuoi condividere?

«Abbiamo sempre dormito in tenda tranne una notte, quando ci ha ospitati una famiglia nel loro gher. La casa era modesta e umile e loro persone semplici e gioiose, abbiamo condiviso i pasti chiacchierando un po’ a gesti e poi ci hanno fatto coricare nella loro sala».

Quali riflessioni hai fatto durante le lunghe ore di cammino?

«Quando vedi realtà diverse dalla tua intuisci che forse in occidente non abbiamo ancora compreso il senso della vita. Bisogna assaporare di più i momenti, godersi le persone care e cercare di realizzare i propri sogni. Guardarsi allo specchio la mattina e vedere una persona felice. Lo stile e la qualità della vita influenzano molto lo stato d’animo e per questa ragione ho deciso di dire molti più no: ora quando prendo una decisione mi ascolto di più e devo sentire che è davvero la scelta giusta per me e per arrivare a questa consapevolezza avevo bisogno di isolarmi e conoscere me stessa. Mi sembra che molte persone oggi non sappiano più chi sono, ci sono troppe distrazioni, inoltre siamo sempre più distanti dalla natura, che è la nostra fonte di vita».

 

Hai mai pensato di costruirti una famiglia?

«Da piccola credevo che a vent’anni avrei avuto dei figli, un marito e una casa, poi le cose sono andate diversamente. C’è stato un periodo durante il quale quando mi parlavano di figli mi indispettivo ma credo fosse un modo per proteggermi perché forse ogni donna, nel suo profondo, ha questo desiderio. Ora non ci penso più, quello che accadrà sarà la cosa giusta».

 

Con quale metodo riprenderai gli allenamenti?

«Dopo la Mongolia mi dovrò concentrare sulla resistenza perché per la stagione invernale devo essere veloce e forte, soprattutto di gambe, e devo capire se il mio corpo è pronto per affrontare una spedizione».

 

Cosa ti sei portata a casa dalla Mongolia?

«A volte la vita è dolorosa, ma spesso la sofferenza è legata a una lezione che devi imparare, il perché lo capirai magari tra qualche anno. Ho attraversato un periodo difficile, durante il quale avevo molti dubbi e punti di domanda: non sapevo se il mio corpo mi avrebbe permesso di fare altre spedizioni, se gli sponsor sarebbero rimasti con me, quale sarebbe stato il mio futuro. Quando ho deciso di dedicare un periodo a me stessa ho capito subito che ero sulla giusta strada. Ho fatto un corso di auto-guarigione, che mi ha insegnato ad amarmi e accettarmi per come sono. Attraverso la Kinesiologia ho cambiato alimentazione, poi sono stata due settimane in Sri Lanka a fare meditazione e yoga. Nel momento in cui comprendi il significato del tuo percorso ottieni una nuova energia, che ti permette di realizzare i tuoi desideri. Adesso è passato più di un anno e sono soddisfatta, vedo già i primi risultati. La Mongolia mi ha regalato di nuovo la fiducia in me stessa. Non sapevo come sarebbe finito questo viaggio, ma ero positiva e ora posso dire di essere felice di com’è andata».

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