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Simone Moro racconta dell’incidente in Pakistan con Tamara Lunger

Interview by Marta Manzoni

La sera del primo aprile abbiamo avuto l’onore di intervistare Simone Moro, l’unico alpinista al mondo a essere stato quattro volte in vetta a un ottomila in invernale, durante un live sul nostro profilo Instagram. Abbiamo parlato di molti argomenti: la sua vita in lockdown insieme alla famiglia, l’impatto del global warming sui ghiacciai himalayani e sulle spedizioni in invernale, l’incidente con Tamara Lunger durante il tentativo di traversata in invernale del GI e del GII, il suo nuovo libro, il desiderio di scalare il K2 in inverno, l’unico ottomila ancora inviolato nella stagione più fredda, le sue speranze per il futuro e molto altro.

Credit @MatteoPavana

Dove ti trovi in questo momento Simone, sei nella tua città Bergamo?

«In questo momento mi trovo in Alto Adige dove vive la mia famiglia e sono qui da due giorni prima del blocco totale, quasi avessi “nasato” il lockdown imminente. Per fortuna i miei parenti a Bergamo stanno tutti bene».

 

“Simone Moro domestico”, un grande alpinista come te come trascorre le sue giornate in quarantena chiuso in casa?

«Incredibile a dirsi ma mi trovo a mio agio. Noi alpinisti siamo abituati ad aspettare settimane o mesi, a -30/-40. Sono essenzialmente abituato ad attendere. In realtà potrei anche uscire perché c’è una deroga al decreto per l’allenamento degli atleti professionisti, ma non lo faccio anche per essere coerente con la situazione attuale. Mi alleno nel cortile di casa con la trave ed essendo stato un climber sono abituato ad allenarmi ore in indoor. Faccio trazione, addominali, stretching e mi alleno anche con mio figlio Jonas, a volte lo uso come peso supplementare per i sollevamenti. Inoltre sto scrivendo il mio nuovo libro».

 

Stai scrivendo un nuovo libro, dicci di più?

«Sto scrivendo un nuovo libro che dovrebbe uscire a ottobre, pandemia permettendo. Parlerà in maniera positiva dei miei fallimenti, più che dei miei successi. ragionandoci su mi sono reso conto che è anche un po’ la metafora di quello che stiamo vivendo adesso con il coronavirus, molto spesso bisogna saper sopportare piuttosto di vincere sempre. Non è di certo un libro sulla caduta nel crepaccio, giusto per essere chiari.

 

Come è il rapporto ora che sei a casa con la tua famiglia?

In questi giorni mi sto allenando anche con mio figlio, che assomiglia molto a me. Ha 10 anni ed è sportivissimo, mentre Martina è più grande: ha 21 anni, e studia lingue orientali a Venezia. Mi è nata persino l’idea di ricostruire l’albero genealogico della mia famiglia, e poi la sera la passiamo raccontando le storie e gli aneddoti più divertenti. Adesso che ho finito con la parte della mia famiglia, domani inizierò con quella di mia moglie».

 

Tu che hai sempre viaggiato molto e passato molto tempo durante questi anni sui ghiacciai, quando sei tornato quest’anno nello stesso posto hai notato grandi differenze?

«Seppure io non sia un catastrofista, penso che nei cicli geologici ci sia sempre alternanza, anche se in questa fase l’uomo è diventato un acceleratore di questo processo che rischia di portare fuori controllo questo processo. Se paragono i ghiacciai del Karakorum ho visto nell’88 o dell’Himalaya nel ’92, posso dirti che in trent’anni di spedizioni ho visto un cambiamento pazzesco. I ghiacciai sono arretrati di 100m, 1km, ma quello che veramente avviene in maniera massiccia è l’assottigliamento. Effettivamente ho notato che là alla base dove c’era il ghiaccio ora c’è la roccia. Ghiacciai anche spessi e frastagliati come il Gasherbrum ora sono tutti fratturati.»

 

E l’incidente con Tamara? Come è successo?

«Io e Tamara abbiamo impiegato 18 giorni per riuscire a trovare il passaggio in quel labirinto di crepacci. C’erano giorni che riuscivamo a fare solo 150m. E’ successo, quando siamo arrivati nel plateau, che nell’attraversamento di un crepaccio mi è crollato da sotto i piedi il lembo di neve sul quale stavo camminando. Tamara era davanti e si trovava in un seracco sopra di me, dunque la corda non andava in orizzontale avendo così la possibilità di fare attrito sul ciglio del crepaccio per attutire la mia caduta. Quindi lei si è trovata strattonata ed è volata, si è fermata sul ciglio del crepaccio e ha lottato come una matta per fare in modo che non venisse tirata dentro anche lei. Io sono precipitato per 20 metri, come se cadessi da un settimo piano: lo strappo è stato violentissimo. Tamara è caduta rimanendo impigliata e tenendosi anche alla mano con la corda con cui mi sosteneva. Poi quando mi sono accorto che mi ero fermato in qualche modo al buio sono riuscito a fissare una vite da ghiaccio per arrestare del tutto la caduta; è stato vero, è stato un casino e lei non riusciva ad usare una mano; due ore dopo sono uscito con le piccozze».

 

Dal tuo racconto scaturisce che a causa del global warming sia più difficile scalare in invernale, mentre altri sostengono il contrario, che ci dici a riguardo?

«Io posso parlare perché ci vado sugli Ottomila d’inverno, gli altri no. Può sembrare arrogante, ma ad oggi ho fatto 60 spedizioni, di cui 19 d’inverno. L’alternanza metereologica è folle, ancora di più negli ultimi tempi. Tante spedizioni con i migliori alpinisti al mondo quest’anno sono fallite. Ci hanno provato i polacchi fino agli Anni ’80, poi è arrivato un bergamasco che li ha scalati, e tutti con compagni diversi. E’ vero che oggi ci sono previsioni meteo più accurate e materiali migliori: ma scalare gli Ottomila in invernale è sempre difficile, il freddo è identico. È anche vero che oggi ci sono più persone che ci provano. L’ultima impresa però è ancora la mia del 2016 sul Nanga Parbat».

 

La domanda allora sorge spontanea: perché scalare in invernale se è così difficile? Sei un incosciente o coraggioso?

«Dopo le mie varie esperienze ho deciso e dichiarato che avrei dedicato la mia carriera alpinistica sulla forma più difficile ed improbabile di “arrivare in cima”.  Scalare gli Ottomila d’inverno è un modo per tornare a sentirsi esploratori. Si ha il 10/15% di probabilità di riuscita.  E’ una forma molto pulita, esplorativa, eticamente bella di fare alpinismo. Eppure sono ancora qui, ho ancora tutte le dita delle mani e dei piedi. Evidentemente non non sono solo fortunato, c’è molto ragionamento e cognizione di causa. Per questo scrivo un libro sui miei fallimenti. Bisogna fallire per essere un grande esploratore. Bisogna prima saper imparare a fallire per arrivare in cima».

 

Il K2 è l’unica montagna tuttora inviolata in invernale. Fino a questo momento avevi escluso questa ipotesi causa un incubo fatto da sua moglie, che aveva sognato la tua morte nel tentativo di scalarlo. Recentemente hai dichiarato che ci stai ripensando. Confermi questo desiderio?

«Ho aspettato in questi 10 anni che qualcuno ci provasse e riuscisse in questo intento, eppure nessuno ce l’ha fatta. Non sono alla caccia di record al momento, ho già scalato quattro ottomila nella mia vita, quindi non ho quella spinta. La mia carriera non si è ancora conclusa, oltretutto non l’ho ancora scalato. Il K2 può essere una motivazione nuova. Quindi mi sono aperto ad una possibilità. Poi certo, dipende anche da quello che mi propongono: se c’è da salire con gli sherpa e le corde fisse allora no perché stonerei.

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