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È morto il primo ghiacciaio

By Stefano Tiozzo
Powered Seva Project

È una grigia mattina a Reykjavik il 18 agosto 2019, ma nonostante tutto fa abbastanza caldo, sui 14 gradi, ampiamente sopra le medie stagionali. Purtroppo l’Islanda è una delle terre che ha subito il riscaldamento maggiore negli ultimi 20 anni. In un piccolo parcheggio di periferia, un gruppetto di circa 80 persone si raduna davanti a un bus. Sono vestiti da montagna, una classica escursione di gruppo. Se non fosse che la destinazione di questa escursione non esiste più.
É il 2014 quando un team di glaciologi annuncia pubblicamente la scomparsa dell’Okjökull, un piccolo ghiacciaio negli altipiani centrali islandesi degradato ufficialmente a nevaio. La causa è il global warming. Questo ghiacciaio lo abbiamo ucciso noi con il riscaldamento globale causato dalle eccessive emissioni di gas serra nell’atmosfera. Dopo qualche anno di monitoraggio, la diagnosi è confermata. Tocca dire addio al primo gigante bianco che ci abbandona in questo bizzarro percorso autodistruttivo che abbiamo imboccato. Gli 80 escursionisti stanno per salire in cima a una montagna per celebrare il primo funerale di un ghiacciaio nella storia dell’umanità. E noi siamo con loro.

Ero arrivato in Islanda con al seguito una troupe di 3 persone per girare un documentario sul Climate Change e le rinnovabili in Islanda il cui ricavato sarebbe andato ad un progetto di riforestazione della foresta pluviale autoctona del Madagascr, il Seva Project. Avere immagini del primo funerale ad un ghiacciaio sarebbe stata un’occasione imperdibile e quindi eccoci qua pronti a seguire il convoglio funebre. L’ambiente è sereno e informale, nessuno ha loghi di emittenti televisive, sembra a tutti gli effetti la partenza di una gita domenicale.
Ci aspetta un trekking di circa 1000 metri di dislivello, nulla di eccessivamente impegnativo se non fosse che non c’è sentiero, solo una grande pietraia. Mentre ci vestiamo a bordo macchina notiamo un gran movimento intorno al bus e scopriamo che è sopraggiunta per l’occasione anche Katrin Jakobsdottir, primo ministro islandese. Accanto a lei un elegante signore dalla pelle scura visibilmente in difficoltà con il clima freddo, probabilmente legato ad Amnesty International, e Mary Robinson ex primo ministro d’Irlanda e oggi impegnata nella questione ambientale. Gli ingredienti per una giornata storica ci sono tutti.
Inizia la salita. Sono a due passi da Katrin, mi si avvicina la sua assistente chiedendomi “voi per quale emittente lavorate?”. Non ci penso su due volte e mento dicendo “la televisione italiana”. Però mi credono, anche perché Simone, il nostro fonico, ha di gran lunga l’attrezzatura più vistosa e professionale di tutto il gruppo, l’abito a volte fa il monaco. E così improvviso un’intervista per il nostro documentario. Mi sento quasi in imbarazzo ma cerco di concentrarmi sulle domande e in qualche modo ci portiamo a casa un gran contributo, del tutto inaspettato, che da grande valore al nostro lavoro.
Il tempo è nuvoloso ma non piove. Il vento è quasi accettabile ma il terreno è tremendamente difficile e irregolare. La salita è di circa 1h e 30 e le guide sono molto chiare nel dirci di non perdere mai il contatto visivo con il resto del gruppo: qui non c’è sentiero, il terreno è tutto assolutamente identico e soprattutto nelle highlands il tempo può cambiare in meno di un minuto e ricoprire tutto di nebbia: perdersi qui, senza alcun punto di riferimento, significa morire.

A mano a mano che saliamo la temperatura scende, il vento aumenta. Sulle rocce iniziano a comparire dei cristalli di ghiaccio plasmati dal vento, segno di una recente nevicata in via di scioglimento, ormai ci siamo, manca poco. Arriviamo alla base di un muro di pietre, palesemente la punta della montagna che stiamo scalando, il gruppo si ferma e io ne approfitto per far volare il mio drone, dalle immagini trasmesse al controller finalmente vedo la grande chiazza bianca di ciò che resta dell’Okjökull, adagiata in quello che ha tutto l’aspetto di essere un cratere di un vulcano spento. Il vulcano è oggi visibile ma 30 anni fa non lo era. Le immagini “prima e dopo” sono impietose.
Mentre penso che solo 10 anni prima io non avrei mai potuto essere dove mi ero ora senza ramponi e piccozza, un uomo prende la parola: è il momento del funerale.

“Purtroppo non abbiamo una tradizione per quel che riguarda i funerali dei ghiacciai, non ne sono mai stati fatti, così abbiamo deciso di seguire un’antica tradizione Islandese quando si salgono le montagne: scaleremo questi ultimi metri in silenzio, senza mai guardarci alle spalle, esprimendo 3 desideri. La tradizione vuole che se rispettiamo queste condizioni, i nostri desideri verranno esauditi”. Così saliamo, in silenzio, senza voltarci indietro, fino ad arrivare ai margini del nevaio dove su un grande masso è stato preparato il sito della lapide da installare, sui cui un epitaffio recita: “Una lettera al futuro: questo monumento è per testimoniare che sappiamo cosa sta succedendo e ciò che invece deve essere fatto. Solo voi saprete se lo avremo fatto o meno”.

Un chiaro messaggio di SOS al mondo, ai governi, alle persone.
Ogni anno in Islanda si fondono 11 miliardi di tonnellate di ghiaccio. Entro 150 anni tutti i ghiacciai d’Islanda seguiranno lo stesso destino se non si inverte la tendenza.
Chissà in un futuro lontano se mai qualcuno metterà piede quassù, in questo luogo così remoto e chissà in che condizioni sarà la Terra in quel momento. Ciò che stiamo facendo quassù equivale a mandare una lettera nello spazio, un messaggio di aiuto arrotolato in una bottiglia in mezzo all’oceano.
La targa infine viene messa in posizione e spinta a fondo dalle mani di 4 bambini, simbolo delle generazioni future a cui stiamo lasciando un mondo ammalato. È un momento estremamente toccante, intorno a noi il silenzio, solo i click delle macchine fotografiche e il sibilo del vento. Dopo la posa della targa, un gruppo di uomini intona l’inno islandese a cappella e una giovane attivista ambientale islandese legge una poesia in lingua locale.
Siamo alla fine, la gente inizia lentamente a scendere perché è in arrivo una tempesta di neve. La temperatura è scesa a toccare lo zero, inizia a nevicare. Non è facile parlare davanti a una telecamera quando hai l’orologio che corre in fretta, e soprattutto i muscoli del viso semi paralizzati dal vento e dal freddo, ma devo farlo a tutti i costi. Mi impappino, mastico le parole e faccio confusione, ma decido di non pensarci, di farlo e basta. Registro il mio pezzo tutto filato e rimetto lo zaino in spalla, sotto lo sguardo impaziente dell’ultima guida alpina rimasta su. Mentre scendiamo gli ultimi metri la tempesta arriva sul serio e disperde quel piccolo gruppo di umani saliti in rappresentanza della propria specie per versare lacrime di coccodrillo su una scomparsa annunciata che probabilmente sarà solo la prima di una lunga serie. O forse no. La realtà è che dipende solo da noi, ed è giunto il momento di scegliere da che parte stare.