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Una corsa per il pianeta

By Oliviero Alotto
Photo Stefano Rogliatti

Le Nazioni Unite ci avvertono che se non cambiamo le modalità produttive e comportamentali da qui al 2050, il nostro pianeta subirà delle crisi ambientali drammatiche e irreversibili. È da questa considerazione che nasce il mio progetto #RunBefore2050 insieme a Slow Food con l’intenzione di fare qualcosa di concreto che vada nella direzione opposta al pericoloso destino che stiamo costruendo.
Oggi il pianeta terra vive una vera emergenza, il riscaldamento globale; ormai da decenni gli ambientalisti denunciano quanto gli atteggiamenti umani stiano incrinando in modo definitivo l’equilibrio che regge il globo terrestre.
Abbiamo bisogno di racconti che uniscano l’impresa anche estrema alla concretezza della nostra vita. Da questi bisogni nasce la campagna Race Against Time, la mia corsa in Groenlandia per denunciare il riscaldamento delle acque e il conseguente scioglimento dei ghiacciai.
Il viaggio per arrivare a Kangerlussuaq è lungo. La prima riflessione, lucida, che faccio durante il volo è che la distanza tra di noi e i luoghi dove i cambiamenti climatici fanno disastri è enorme, forse è per questo che ci manca la percezione di quanto sta accadendo, anche perché nessuno ce lo racconta.
Quando arriviamo non mi sembra vero, sono anni che mi occupo di ambiente e credo che oggi uno dei ruoli indispensabili degli ambientalisti sia scuotere le coscienze, produrre azioni capaci di invertire i consumi, di obbligare tutti noi a cambiare le nostre sbagliate abitudini, ma perché questo avvenga bisogna rendersi conto del dramma che stiamo vivendo e che stiamo facendo vivere al pianeta terra.

Siamo partiti in quattro, oltre a me ci sono la Dottoressa Felicina Biorci, Biologa Nutrizionista dell’Univesità degli Studi di Torino, Stefano Rogliatti, regista e operatore video e Alessandro Ghignone, studente dell’Istituto Bodoni Paravia di Torino.
Appena arrivati, ci rechiamo immediatamente a vedere il ghiacciaio, quanto si sta ritirando e quali sono effettivamente i danni.
Ci accompagna un ragazzo di origine indiana che da 18 anni vive qui a Kangerlussuaq, gli chiediamo se lui si sia accorto della differenza dei ghiacci da quando è arrivato. La sua risposta è un secco si, il ghiacciaio è, a detta sua, almeno un km più corto di quando lui è arrivato.
Voglio iniziare subito a correre, voglio documentare tutto, sentire nelle mie gambe quel territorio, fotografarlo e tornare in Italia e raccontare il dramma che stiamo vivendo.
Da Kangerlussuaq parto con i piedi fradici. Quando corro ho caldo e sto bene ma appena mi fermo si congela. Non mi posso quindi fermare, questo è solo un preambolo di quanto mi aspetterà durante i circa 200 km di traversata.
La prima giornata scorre tra terra battuta e arbusti bassi, vedo solo alcune renne ma non c’è un albero. Corro fino al paese, arrivo dopo le 23.30 ma sembra giorno, la luce è presente tutta la notte. Provo a coricarmi ma capisco subito che dormirò poco, ho solo la voglia di ripartire per la mia traversata.
Poche ore dopo la sveglia suona, Felicina mi prende i parametri che servono a sapere il mio stato di salute muscolare. Sta svolgendo un importante studio su quello che accade durante uno sforzo fisico come in una ultra endurance.
Preparo lo zaino con il cibo sufficiente per le ore che prevedo di correre, circa 30 per coprire 180 km. Abbiamo studiato quello che sarà il mio fabbisogno energetico ma cercando alimenti poco impattanti sull’ambiente e seguendo il mio regime alimentare totalmente vegetale. 

I miei compagni di viaggio fanno 15 km con me, poi mi salutano. Resto solo e ho soltanto il telefono satellitare da utilizzare esclusivamente in caso di emergenza.
Parto con la voglia di tornare a raccontare quello che vivrò. Immediatamente mi sento immerso nella tundra, dove acquitrini continui cedono il passo a sentieri non segnati, a laghi immensi e parti di ghiaccio sempre più sciolti. Dopo le prime 10 ore mi fermo un attimo, mi avvicino al lago e inizio a bere, l’acqua è fredda, buonissima e pura. Riparto, diventa notte, lo so perché vedo sul mio orologio il tempo che passa ma la luce non diminuisce.
Faccio il mio primo micro-sonno di 10 minuti. Il freddo durante la notte è terribile a causa del vento. I piedi sono fradici, e per un tratto di circa 15 km il mio passo viene rallentato dalla presenza costante di acqua. Poi di nuovo arbusti che colpiscono le mie gambe, ricomincio a correre mentre incontro l’alba e poi di nuovo un caldissimo sole.
Non mi fermo mai, se non per bere dai torrenti. La giornata trascorre, e mi trovo in un attimo a vedere il sole che inizia a scendere, quei 15 km mi hanno rallentato e invece di 30 ore ce ne metterò 45. Mi aspetta l’ultima salita, ancora 30 km e vedrò finalmente Sissimiut, la cittadina sul mare che sogno ormai da 150 km.
La salita è molto dura ma la supero tutta d’un fiato, ed eccomi su un meraviglioso pianoro, ancora ghiaccio misto ad acqua. È incredibile, questo sarà quello che racconterò, un ghiaccio una volta perenne che si sta trasformando. Da un momento all’altro davanti a me si manifestano Stefano e Alessandro, sono venuti ad aspettarmi per fare insieme le ultime due ore di corsa, mi recuperano, mi abbracciano e mi portano a toccare il mare. Corro in spiaggia, questo viaggio è finito, adesso inizia il racconto.
Ma non ho intenzione di fermarmi, penso già alla prossima corsa che sarà nel Deserto del Gobi, per parlare di desertificazione e cambiamenti climatici.
Queste mie imprese sono dedicate alla denuncia della gravità di quanto sta succedendo a causa del riscaldamento globale, ma vogliono essere anche un momento di impegno concreto per tutti noi, per questo ho legato ai miei km in solitaria una raccolta fondi a favore degli orti in Africa, un progetto che Slow Food porta avanti da anni. Far crescere un orto in Africa significa garantire alle comunità cibo fresco e sano, ma anche formare una rete di leader consapevoli del valore della propria terra e della propria cultura; protagonisti del cambiamento e del futuro del continente africano, responsabile solo del 4% delle emissioni di CO2 a livello mondiale.

Ormai è documentato in modo chiaro che tra le principali cause dell’effetto serra ci sia la produzione di cibo. Per sfamare una parte del mondo stiamo affaticando l’altra e gli allevamenti intensivi sono una delle cause del riscaldamento globale, eppure sembriamo di fatto estranei a quanto sta succedendo, come se in fin dei conti tutto questo non ci riguardasse da vicino. Invece siamo noi la causa di tutto questo. Sono convinto che ci siano tre principali player che oggi possono invertire la rotta: i consumatori, l’industria e la politica. Sarebbe molto facile dare la responsabilità solo ad una di queste categorie. Invece, se tornassimo ad essere comunità potremmo occuparci in maniera collettiva del problema, partendo dal nostro modo di agire, per poi pretendere delle ricadute politiche e influenzare il mercato perché sia più attento alla nostra terra e non esclusivamente ad un profitto effimero e immediato.
Il legame tra paesi lontani e la nostra poca sensibilità mi hanno portato a correre in un luogo remoto, tra i meno antropizzati del mondo, ma che esattamente come l’Africa, sta pagando un prezzo altissimo per il costante riscaldamento globale.
Servono politiche concrete perché si proceda a passi spediti verso ad esempio all’eliminazione del carbonio, si devono superare le energie fossili a favore delle energie rinnovabili, serve uno sviluppo economico che crei lavoro ma che sia ambientalmente sostenibile, in questo l’indotto alimentare è ricco di storie di successo ma che vanno replicate. L’agricoltura può giocare un ruolo positivo importante nella lotta ai cambiamenti climatici, dobbiamo puntare ad un’agricoltura che prevenga l’erosione del suolo, che rallenta la desertificazione e che gestisca in modo differente le risorse idriche.
Abbiamo bisogno di impegnarci costantemente e tutti insieme, perché il 2050 è vicino, molto più di quanto pensiamo, ed è oggi che si deve fare la differenza.