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Running Charlotte in Patagonia

Io mi sento come la Terra del Fuoco: solitaria detentrice di estremità gelate e sognatrice dal cuore caldo.

La Terra del Fuoco è la regione più a sud del mondo e io l’ho sempre guardata con meraviglia.
L’idea che un uomo, viaggiando verso sud, incontri prima il caldo torrido dell’equatore e l’umida afa dei tropici e poi, andando fino in fondo, si ritrovi nel mezzo dei ghiacciai più estesi del mondo, è un’idea che mi fa impazzire. Un luogo abitato da colonie sconfinate di pinguini, leoni marini e da solitari esseri umani, un luogo che, quasi per ironia, porta nel suo nome ciò che di più caldo esista, il fuoco.

Da bambina quando qualcuno accennava a questa terra magica, la Terra del Fuoco, mi venivano in mente le parole che ripeteva la nonna prendendomi per mano: “Carlotta, hai le mani fredde, e il cuore caldo”.

Facile capire quindi come la decisione di partire per Ushuaia per correre una gara di ultra-trail ha fatto capolino senza fatica: “correre alla Fine del Mondo” ho letto nella presentazione della Ushuaia by UTMB e mi sono immediatamente vista tra foreste e rocce ghiacciate.

Avessi seguito il mio solito istinto da “io viaggio da sola” avrei fatto il biglietto per il volo senza lasciar passare un giorno. Invece ho aspettato quel tanto da avere il tempo di parlarne con un’amica e non un’amica qualunque, l’amica con la quale condivido la passione per i dettagli impopolari e i volti più nascosti, Francesca. Lei fotografa, io raccontastorie.

E siamo partite.

Ushuaia.
Arrivo ad Ushuaia la sera tardi ed è buio. Scendo dall’aereo e respiro l’aria australe. Ushuaia resta in silenzio la notte. I turisti tremano dal freddo negli hotel e gli abitanti o sono in mare a pescare o dormono quelle poche ore che li separano dall’alba. Le ombre fanno presagire montagne coperte di bianco e boschi scuri e folti, che il giorno della gara vengono quasi nascosti dalla neve, che cade incessantemente. Nel tempo libero vaghiamo per le due vie della città, parallele e quasi identiche, non fosse che una è sul mare. Un’infilata di case di lamiera, insegne discordanti e auto sgangherate assiste alle giornate lente dei fueghini. I colori sono resi più vividi grazie all’aria estremamente limpida, ma si respira un’aria da luogo dimenticato da Dio, abitato da pionieri e galeotti. Pochi sono quelli che sorridono, quasi solo i trail runner che sono venuti qui per correre la Ushuaia by UTMB, come noi. Cerchiamo gli angoli più solitari e li troviamo. I nostri compagni prediletti sono i cani, che qui girano slegati e liberi, come noi.
Ogni mezz’ora circa mi viene in mente un pensiero, ricorrente come il suono di una campana “sei alla Fine del Mondo, da Torino sei arrivata alla fine del mondo per correre”.
Francesca mi guarda, quasi con apprensione ad ogni mio sussulto entusiasta. Mi ha sentita esclamare “bello!” così tante volte che  deve parerle un ritornello. Io mi esalto per ogni dettaglio scalcagnato di questa cittadina di lamiera battuta dal vento. Lei scatta foto che forse si comprendono solo se a Ushuaia si è stati. Cerchiamo di intrappolare quella luce, quell’aria fredda, quel silenzio in parole e scatti, senza forse riuscirci. Eppure il marchio “Fin del Mundo” lo portiamo impresso in quel punto nascosto tra cuore e cervello.

La Patagonia cilena.
Lasciamo Ushuaia in autobus. Sono le sette del mattino e a questa latitudine albeggerà tra un’ora abbondante. I vetri del bus sono ricoperti di condensa. Io ho fame e freddo, come sempre e invidio la tazza di yerba mate dell’autista, appoggiata tra cambio e cruscotto. Quando inizia ad albeggiare stiamo lasciando la Terra del Fuoco. Distese di nulla e guanachi accompagnano il viaggio verso il Cile. Tra meno di 24 ore saremo ai piedi delle Torri del Paine, uno dei miei sogni iconici di sempre.
Le Torri del Paine sono montagne emblematiche per i turisti di questa terra. Tre denti di granito grigio e rosa attorniate dalla prateria senza fine. Assomigliano alle Tre Cime di Lavaredo, ma le dimensioni non lasciano dubbio sul fatto che qui siamo in piena Patagonia e non sulle Dolomiti.
Arriviamo dopo quasi due giorni di viaggio ai piedi dei giganti ed io mi sento come un cane che viene portato ai giardinetti dopo una settimana di pioggia. Inizio a correre senza aspettare Francesca sul sentiero perfettamente ritagliato nell’erba verde e ritorno a lei ogni chilometro. Proprio come un cane. Peccato non avere il fiuto del cane, perché grazie alla mia avidità di paesaggi ci perdiamo.
La verità è che perdermi in questa grandezza mi fa sentire felice. Una solitudine profonda che rende liberi. Un silenzio che recide le corde che ci legano alla realtà. Ritornando sui nostri passi saltiamo tronchi senza pensare, affondiamo nel fango umido del sottobosco senza frenarci. Di fronte a noi la natura sfoglia le sue pagine più nascoste. Anche qui i nostri compagni sono animali. I cavalli selvatici del parco ci guardano immobili, gli occhi parzialmente coperti da criniere mai tagliate da mano umana.
Il parco è immenso e da ogni angolazione le Torri sembrano diverse. Da est i denti sono pesanti e imponenti, da ovest, all’alba, si stagliano esili e altissimi a bucare il cielo. Ai piedi del massiccio la lingua di ghiaccio del Glaciar Grey ci lascia fantasticare sulla massa di ghiaccio che è il Hielo Patagonico Sur. Un paio di Iceberg galleggiano sulla superficie del lago glaciale, che riflette le vette. Il ghiaccio che si rompe produce un suono incredibile. Un boato che parte lentamente per terminare fragoroso.

La Patagonia settentrionale e la Regione dei laghi.
Per arrivare a Puerto Montt prendiamo un volo interno. La Regione dei Laghi e l’Isola di Chiloè, al limite nord della Patagonia, sono ritagliate tra i fiordi. I Paesaggi, qui, sono diversi. Le montagne sono lontane come il turismo più scontato. Il nostro viaggio alla ricerca dei dettagli riprende all’insegna dei colori. In questa regione, scossa da terremoti sconcertanti che hanno raggiunto magnitudo apocalittiche, le persone sono semplici e le case in legno di larice andino. Le strade, dalle pendenze ideali soltanto per le ripetute in salita, sono ortogonali e decorate da facciate sbilenche e magnifiche. Non ho mai apprezzato le cose perfette, è proprio ciò che è storto che mi affascina e non riesco a non innamorarmi di queste porte di legno che non conoscono gravità.
La mattina presto la luce è incredibile e si fa spazio tra il fumo dei camini a legna delle case con forza. Sembra sempre di essere in scena a teatro, su un palco polveroso, illuminati da un occhio di bue che ritaglia un cono di luce sull’azione.
Ripartire per Santiago mi spezza il cuore. Non so se sono di nuovo pronta ad affrontare la città.
Il silenzio della Patagonia ha riempito ogni angolo di me. Quando arriviamo alla stazione degli autobus in centro, la magia del vento patagonico ci abbandona. Siamo nuovamente Carlotta e Francesca, una raccontastorie e una fotografa, amiche casuali del mondo della corsa.
Entrambe con quel tatuaggio, in quell’angolo nascosto tra cuore e cervello.

“Io sono stata alla Fine del Mondo”.

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