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Porters, storia vera di empatia montanara

By Chiara Guglielmina

Ai piedi del Buddha di Kargah, scolpito nella roccia alla gola del “ruscello secco” Shuko Gah, dalla base di questo burrone e col sole negli occhi, io sono felice. Sul finire del viaggio, dentro i raggi caldi, trovo il mio Pakistan. Dall’alto di Gilgit, un pensiero va a Occidente insieme alla brezza che mi tocca il viso da est a ovest: “Ho visto cose che non so come mostrarvi”, penso. Alzo lo sguardo verso i lasciti scolpiti di un buddhismo pakistano ormai ridotto all’osso e chiedo a quest’aria gentile e al sole, di farmi trovare le parole per raccontare ciò che è stato. Qui, dalla gola del “ruscello secco”, zittita dalle grandi montagne taccio anche i sogni, e chiedo solo questo: di saper scegliere le parole.

8 luglio 2020 – “Chiama quando puoi”

Poco prima delle venti, a cena a casa di Lorenzo e Clara dopo una giornata di arrampicata, ricevo da Michele il messaggio in codice. Dopo otto anni di amicizia conosco il potenziale delle sue poche parole così, siccome la pizza tardava ad arrivare, mi scuso e scappo in terrazzo a chiamarlo.

Contatti → Michele Cucchi → Chiama

Porto il telefono all’orecchio e dopo due squilli più lunghi del solito:

“Ehi” fa lui.

“Ehi” faccio io. “Dimmi tutto” aggiungo alla conversazione spoglia.

“Ascolta ma tu…” Attimi di silenzio. “Ci verresti in Pakistan?”

Ancora silenzio. Porco cane, penso. Silenzio. “Quando?” rispondo ostentando una tranquillità che non ho. 

“Quest’autunno.” ribatte lui. “Ma è solo un pensiero per ora, tutto un se, se e ancora se” aggiunge. 

“Beh emh…” proseguo io nella mia farsa. “Se il se diventa sì, io ci sono.”

Nemmeno lui ci crede troppo tant’è che me lo chiede due volte. 

“Sì dai,” continuo rassicurandolo, “se va in porto puoi contare su di me.”

Ancora oggi sono convinta che le due medie bevute a digiuno, aspettando la pizza che non arrivava mai, abbiano sancito l’inizio dei miei viaggi in Asia. Perché nessuno va a Oriente una sola volta: 

e io ho promesso di tornare.

L’idea

“L’idea è nata in primavera” mi spiega il Michi in aereo. “Vista la situazione di emergenza in cui tutti ci troviamo a causa del Covid, ho fatto sempre più mia la convinzione che fosse giunto il momento di restituire il favore.” continua il Lungo. È così che lo chiamano ai piedi del Monte Rosa. Il motivo è semplice: a scalare, ad esempio, per “moschettonare” al primo spit, arriva tranquillamente con entrambi i piedi ancora poggiati a terra.

“Sono convinto che chi di noi viva un’esistenza felice, in cui riesce a realizzare i sogni che si porta dietro da tutta la vita, debba restituire, dare indietro.”

“E come si fa, tra i tanti, a scegliere a chi rendere?” domando ingenuamente io.

“A chi?” reagisce basito lui.

“Non è importante Chiara, conta solo ricambiare. Che sia a un pakistano nella valle degli Hunza o a una ragazza del Monte Rosa non conta. Se raggiungiamo la consapevolezza di aver avuto tanto, altrettanto dobbiamo dare” continua guardandomi negli occhi. 

“E di modi…” riprende voltando la testa al piccolo oblo del volo Dubai-Islamabad, “ce ne sono a migliaia.”

Tra dialoghi forti e prime risate insieme arriviamo in cinque in questa terra lontana.

In Himalaya a me pare un viaggio nel tempo più che nello spazio. Sempre stipati su jeep vacillanti, su strade precarie di antichi commerci sento, dopo anni di sogni, tutta la forza della montagna. Qui nella casa della neve, come suggerisce il sanscrito, sulla via di Kabul e quella della seta, fra i giganti ghiacciati dell’Himalaya, tra vallate, altipiani e yak anch’essi più sciupati, è tornata feroce la fame.

Per questo siamo qui: per il momento drammatico che i montanari himalayani stanno vivendo, inermi sotto i loro guardiani bianchi. La pandemia anche qui ha bloccato ogni cosa e il turismo resta tra le vittime più martoriate. Di fronte a quella che considero la guerra della nostra epoca, anche l’avventura e l’alpinismo hanno conosciuto lo spaventoso lockdown. 

Letteralmente lockdown = bloccato giù. Aggettivo che rivolto all’alpinismo riecheggia dentro queste immense valli con maggiore violenza. Lock down = bloccato giù. E continuo a pensarci.

Siamo partiti dal Monte Rosa con Michele Cucchi, professionista della montagna con a curriculum, tra molto altro, dieci anni di lavoro dedicati al Pakistan e alla sua gente. Con la ONLUS Cuore Attivo Monterosa è partita, già al tramonto della primavera, una raccolta fondi che il 27 ottobre ci ha permesso di volare su Islamabad. Nelle valli immense del Karakorum, dieci anni fa il numero di turisti che esploravano l’Himalaya pakistano era di 35.000: negli ultimi due anni un’impennata li ha fatti salire a 2 milioni. L’immediata conseguenza è che i portatori d’alta quota, senza cui non sarebbe possibile nemmeno sognarle certe ascese, si sono trovati con niente. E così intere famiglie e villaggi. Non una corda a cui assicurarsi, non un pugno di farina.

A sostenerci con calda partecipazione l’associazione Ev-K2-CNR: fondata nel 1989 sulla scia dell’incontro, nel 1987, tra Ardito Desio e Agostino Da Polenza (tuttora presidente).

Agostino lo incontriamo a Malpensa, per una veloce stretta di mano che vorrei potesse durare di più. A toccare la storia dell’alpinismo senza guanti né mascherine; perché igienizzarsi le mani dopo l’incontro a me pare un reato. Sugli strapiombi della Karakorum Highway che da Islamabad ci porta a Skardu lì, sulla via della seta che conduce in Cina, la sento tutta quella Storia.

Con lo scopo di aiutare il più possibile l’economia locale, è lungo la strada della spedizione che acquistiamo riso, lenticchie, olio, farina, latte in polvere, tè, sale e spezie: una spesa povera specchio della vita di qui. La nostra base, per gran parte del viaggio è Skardu: non distanti dalle grandi montagne, vicini quanto basta alle sorgenti del fiume Indo da poterci incantare, ogni mattina, davanti all’immensa piana alluvionale: una landa insieme animata, insieme deserta.

È da Skardu che partiamo ed è a Skardu che, dopo qualche giorno nei villaggi soccorsi, rincasiamo. Ogni partenza è eccitante, com’è giusto che sia. Ogni rientro desiderato. Qui, alla confluenza tra i fiumi Indo e Shigar, a quasi 2.500 metri, abbiamo tutti trovato una seconda casa.

Dopo i primi giorni trascorsi tra Askole e Arandu nella parte più remota del Gilgit Baltistan, la seconda volta che lasciamo il Campo Base di Skardu è per raggiungere Hushe, il più alto villaggio dell’omonima valle e casa di alpinisti tra i più forti del Pakistan.

Apro le pagine del mio diario.

Il diario

8 novembre

Strade belle, di quelle che è ancora un piacere percorrere. Tratti bucati come fette di emmental si alternano a gonfie mammelle. Un su e giù che al quattordicesimo giorno di viaggio diventa un dolce cullare. E mentre si spengono le ultime cime infuocate dal saluto del sole, le nostre palpebre calano il sipario sul palcoscenico più alto della Terra. Ora fuori è buio, ma anche dai finestrini delle jeep si vedono chiare le stelle. Un cielo nero nitido si riempie di punti luce. Poggio la mano aperta sul finestrino come a sentirli e gli occhi, per riflesso o commozione, sono lucidi. Le teste rimbalzano al ritmo della strada e i più fortunati fra noi riescono persino a sognare. Io sogno di tornare. E tornerò.

 

9 novembre

Sono con cinque uomini di cui tre alpinisti esperti con a curriculum vette di ottomila metri, una guida pakistana e un giovane freerider. Il ritmo è alto e io, tra sabbia e gelo, fatico. Mi chiedo se Michele si renda conto che trenta centimetri di gamba in meno, a ogni falcata, facciano differenza. Spesso corro o meglio, rincorro. “Anyway”, come direbbe il Michi, ho capito la scorsa estate sul Rosa che i lamenti in montagna sono inutili e noiosi. Inoltre con quanto visto i giorni passati nei villaggi, lamentarsi sarebbe un insulto all’umanità. Testa bassa e proseguo in silenzio. Ho solo da ringraziare io nella vita. Nessuno si gira a vedere se sei ancora lì e nessuno ti da pacche sulle spalle. Tolta qualche parola iniziale tra Michele e Ali la marcia è silenziosa. Da colonna sonora il mio ansimare secco, le pestate degli scarponi sulla pietra e una melodia straniera canticchiata da Ali Durani: se la canta lui.

La marcia dura 22 chilometri e subito capisco che in Himalaya le tappe si misurano in grandi distanze prima di raggiungere i dislivelli. La quota non è molta: 3.500 metri. Se ti metti a correre per recuperare quei centimetri di ossa che ti mancano, tuttavia, si sente. Per un lasso di tempo che non so quantificare sono nel film “Inception”, in un sogno-non sogno dove le montagne più alte della Terra si chiudono sopra di me, schiacciandomi. La testa pulsa di fatica e tu vuoi guardare in basso a vedere dove metti i piedi, ma le cime tutt’intorno chiedono di essere guardate. Non lo fanno con gentilezza e tu, di nuovo, non hai scelta. Sono un marinaio in mezzo alle montagne; incantata dal fruscio del vento come dal canto di una sirena. 

Ali Durani è giovane e bello. Negli occhi si leggono i suoi 29 anni quassù. Lo osservo senza scrupoli alla ricerca di un trucco, tra le sue mosse, che sveli la magia del muoversi con naturalezza in un mondo tanto selvaggio. Tra voragini di buio e seracchi così instabili da sembrare danzanti su queste lingue di ghiaccio. Ha fatto parte anche lui della spedizione del 2014 “K2 60 Years Later” che ha portato in vetta, tra gli altri, anche il nostro Michele. Questo riporta inevitabilmente al diario.

 

9 novembre

Michele ha da poco compiuto cinquant’anni e sa ancora eccitarsi come un bimbo a Natale. Ieri sera ad esempio, arrivati in questa “Chamonix pakistana” dell’alpinismo, ha incontrato i suoi amici: compagni con cui ha raggiunto la cima del K2 e altre “leggende”, come le chiama lui. Abbracci, strette di mano e pacche sulle spalle da far girare la testa. Io spettatrice di un sogno mi stropiccio gli occhi, accendo anche la mia frontale e illumino, nell’ordine: Ali Durani, Ali Rozi, Hassan Jan, Muhammad Sadiq, Muhammad Hassan, Muhammad Taqi e Rehmat Ullah Baig. Eccola al completo la squadra che attrezzò buona parte dello Sperone Abruzzi. “Forze della natura” li chiama il Michi. “Fare tanto con poco” è il nostro motto.

Il team

Un gruppo poco numeroso, eterogeneo e vincente: una piccola famiglia. Michele è eletto da un tacito e unanime consenso il Capo Famiglia. Poi Matteo, giovane come me e figliastro di Michele. Infine Rosella e Paolo, rispettivamente medico e Guida Alpina, sposati da trent’anni. A seguire io: separata ma mai lontana.

 

Michele Cucchi | Guida Alpina, soccorritore, tecnico di elisoccorso, alpinista

Un “sognatore pratico” che dosando creatività e concretezza ha costruito una vita in cui a definirlo sono i fatti più che le parole. Uno dal destino scritto nell’aspetto: occhi penetranti per guardare a fondo; gambe più lunghe del suo soprannome per seguire strade lontane.

 

Matteo Negra | Maestro di sci, freerider

Un coetaneo che sono fiera di chiamare tale. D’inverno sulla neve, in estate si guadagna da vivere sudando nove ore al giorno sui tetti delle case di Zermatt: da diversi anni fa il posatore di lose. 

Uno pieno di energia pur conoscendo bene la fatica. Occhi caldi e malinconici nascondono una storia probabilmente dura ma, a vederlo oggi, sicuramente formativa: c’è saggezza nei suoi 27 anni.

 

Paolo Dalla Valentina | Guida Alpina, cinofilo del Soccorso Alpino

Un uomo taciturno non per mancanza di parole, ma per preferenza di ascolto. Cosa rara. 

Uno dabbene di cui apprezzo, tra le tante, l’eleganza con cui ha scansato l’egocentrismo che oggi ci accumuna un po’ tutti. Vestiti semplici, parole chiare e tanta voglia di conoscere ancora. 

Ama i suoi figli e Rosella. E non è scontato.

 

Rosella Giuliani | Medico e volontaria

Dallo scoppio della pandemia fino al giorno prima del volo su Islamabad ha lavorato senza tregua. Ciò nonostante preferisce un freddo sacco a pelo sul pavimento sporco a un caldo lettino di Rimini. “Mi danno della pazza!” mi confessa. “Ma è solo che amo la vita” conclude in un grande sorriso.

Una donna così la guardi con stima o non la guardi. Ama i suoi figli e Paolo. E non è scontato.

Sakina | Una storia nella storia

Sakina è la bimba blu dell’Himalaya o meglio, grazie al medico e alpinista Annalisa Fioretti, ora ha lo stesso caldo colore dei coetanei. Ci ho parlato al telefono, con Annalisa, e l’ho sentita forte la storia di Sakina: un dono che merita più parole di quelle che ho. Perché spiegare cosa porti certe donne e certi uomini tanto oltre le loro vette himalayane è difficile, e ogni mezzo pare limitante. Una parola. Uno scatto. Un disegno. Un’immagine fermata di una vita salvata. Molto poco rispetto al cuore che Annalisa ha visto ripartire. Un gesto naturale il suo, senza nulla in cambio. Naturale come dovrebbe sempre essere. Una storia nata da un incontro a 8.000 metri, sul Gasherbrum II, nel 2011. 

 

Ma chi è Sakina?

Sakina noi l’abbiamo incontrata a Korphe, un piccolo villaggio rurale che dall’altra parte del fiume Braldu guarda in faccia Askole.

“Sakina è un incontro che cambia la vita” spiega Annalisa. “La sua ma anche la mia.”

È il 2012 e Annalisa si trova in Pakistan per una nuova spedizione, questa volta al Gasherbrum I.

A Skardu, in attesa che ogni cosa sia pronta, Annalisa scopre che proprio nell’hotel a fianco soggiorna Greg Mortenson: alpinista, scrittore e cofondatore del Central Asia Institute con cui, insieme ai suoi collaboratori, ha costruito in Pakistan, Afghanistan e territori kirghisi oltre 120 scuole, promuovendo in modo particolare l’istruzione femminile.

Non bevono molte tazze di tè prima che lui le parli della bimba blu e così, qualche sera dopo, si presentano nella sua stanza Greg, Sakina e il papà. La bambina è davvero blu: è cianotica. Ad Annalisa basta una visita per capire che si trova di fronte a una grave patologia cardiaca: le prescrive degli esami e promette, al rientro dal Gasherbrum, di rincontrarsi.

Così è stato. La scalata quell’anno non è facile e all’altezza del Campo II, nel Couloir dei Giapponesi, una valanga li investe costringendoli a rientrare. Gli esami fatti, nel frattempo, confermano le ipotesi di Annalisa: Sakina cinque anni prima è nata con un difetto interventricolare grave che significa, se non si interviene, un’aspettativa di vita ridottissima. Stupisce già come sia sopravvissuta a cinque anni di lotta. 

Una volta rientrata in Italia, con lo stesso spirito fiducioso con cui si organizza una spedizione, Annalisa si attiva e in pochi mesi eccolo: un biglietto aereo dal Pakistan all’Italia per la piccola, il papà Mohammad e un interprete. Intuizione, fiducia e tanto impegno fanno sì che, il 14 febbraio 2013, Sakina sia sottoposta all’intervento che le salva la vita. La bimba è stata operata al policlinico di San Donato, a Milano, dal Professor Alessandro Frigiola e dalla sua équipe. Miracolo reso possibile grazie al sostegno di amici vicini e lontani che, unendo le forze, hanno raccolto il necessario per sostenere economicamente il trasferimento temporaneo e il difficile intervento.

“Sakina aveva un ventricolo solo e il dotto di Botallo (dotto arterioso che mette in comunicazione l’aorta con l’arteria polmonare) ancora aperto” mi spiega meglio Annalisa. “La pervietà del dotto di Botallo, ovvero la mancata chiusura, causa difficoltà a respirare e insufficienza cardiaca congestizia” conclude. Parole per me complicate che mi fanno capire che Sakina non ossigenava adeguatamente e che, senza intervento, non sarei seduta a fianco a lei oggi.

Nemmeno il post-operatorio è stato semplice ma, sempre a botte di sorrisi, Sakina ce la fa ancora e si conquista il suo rientro in Pakistan: in questa capanna di Korphe in cui oggi siede timida e sorridente a condividere una tazza di tè. Con noi che, sempre grazie alle mille mila amicizie di Michele, abbiamo la fortuna di incontrarla e di consegnarle, oltre a quello di riso, un pacco speciale da parte del suo angelo italiano, carico di vestiti caldi per lei e per i suoi fratelli.

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