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Sakura Michi. Dialogo con il cervello di un runner.

By Filippo Canetta

Illustration Massimiliano Marzucco

Powered Wild Tee

La Sakura Michi Kokusai International Nature Run, ovvero la corsa internazionale sulla strada dei ciliegi in fiore, nasce dalla mente dell’autista di autobus Sato Ryoji che un giorno si fermò lungo la tratta Nagoya-Kanazawa che percorreva abitualmente. Stavano spostando un ciliegio di oltre 400 anni per la costruzione di una diga artificiale e ne rimase così impressionato che andò tutti i giorni a controllare che le radici del vecchio albero avessero attecchito nella sua nuova collocazione. La forza della pianta lo colpì così tanto che decise di cominciare a piantarne lungo la strada che percorreva ogni giorno. Purtroppo Sato morì a soli 47 anni lasciando la sua opera a metà ma da 26 anni si rende onore alla sua iniziativa percorrendo di corsa i 250 chilometri che separano Nagoya da Kanazawa durante la fioritura dei ciliegi da lui piantati.
L’idea di correre la Sakura Michi mi ronzava in testa da così tanto tempo che non mi ricordo neanche più dove avevo letto della gara. In uno slancio di poesia mi vedevo correre leggero senza fatica su un morbido tappeto di petali di ciliegio per 250 chilometri.

Cervello: “sei il solito sognatore”

Ma a me piace sognare ed ero curioso di vedere se ancora ero in grado di farlo.

Chiamo un amico che grazie a dei colleghi giapponesi mi mette in contatto con Mr. Hogo, l’organizzatore. La partecipazione alla Spartathlon mi assicura l’iscrizione nel ristretto numero di partecipanti stranieri.

“non riuscirai mai ad allenarti per una gara del genere, sono passati 3 anni dalla Spartathlon e sei un vecchio”

Ma io ci provo, corro più che posso in tutti i momenti liberi perché non è facile prepararsi mentalmente per correre 250 chilometri. L’obiettivo è spropositato e tutto quello che fai sembra riduttivo. Arriva presto il momento di partire per il Giappone, con me c’è mio figlio Claudio che seguirà il percorso su un pulmino dell’organizzazione.

“è la prima volta che siete soli, tu e lui ad una gara, cerca di mantenere una dignità, non fargli vedere come ci si riduce dopo 30 ore”

Ci siamo, la cerimonia di apertura della gara (totalmente in giapponese) è estremamente formale, non capisco nulla ma il rituale mi tranquillizza, tutto è al suo posto in Giappone e così mi immagino sarà anche per la gara. La notte prima dormo pochissimo a causa del fuso orario, guardo fuori dalla finestra e c’è un’alba magnifica sul castello di Nagoya. L’attesa è finita, ora non mi resta che correre e vedere se arrivo dall’altra parte del Giappone. I primi chilometri sono sempre strani, abbiamo l’obbligo tassativo di fermarci ai semafori ed il serpente dei 120 partecipanti si compatta e poi si spezza continuamente ad ognuno dei mille stop. Finita l’agonia dei semafori, i più forti accelerano vistosamente e noi dietro li lasciamo andare. Inutile prendere rischi in questa fase. Preso da quella strana forma di bulimia che assale i corridori, mi faccio tutti i ristori che sono estremamente ben forniti di frutta e onigiri, gli alimenti migliori per il mio povero stomaco.

“certo che devi mangiare, non fare come al solito, se va bene ne avremo per una trentina di ore e 20.000 Kcal”

Il sole scotta sulla pelle, mi bagno il più possibile per mantenere accettabile la temperatura corporea e non sprecare energie per raffreddarmi. Cerco di contare i ciliegi per distrarmi e trovare il passo, ma perdo velocemente il conto. Sono più costanti ma interrotti dall’avanzare dell’urbanizzazione del territorio che non ne fa leggere il disegno. Non è il lungo viale alberato che mi ero immaginato.

“benvenuto sulla terra, la realtà non è mai come te la immagini”

I chilometri passano e più avanzo più mi è evidente quanto il Giappone sia sempre in bilico tra tradizione e modernità. Mentre nelle città alienate da ritmi di lavoro asfissianti tutto tende verso la modernità, nel Giappone più rurale il richiamo della natura e delle tradizioni sono ancora molto vive. Intanto sebbene la mia velocità di crociera sia ancora buona comincio ad essere un po’ stanco, fatico a distinguere le ore del giorno a causa del fuso orario. Arrivo al cancello orario del km 110 con un buon margine. Ora comincia la salita che mi porterà nel punto più alto a metà gara.

“è ora di fermarsi, lascia stare la gara, prima che sia troppo tardi”

Il sole tramonta, presto sarà buio, recupero la frontale, accendo tutte le luci attaccate al pettorale e mi metto una maglia a maniche lunghe.

“invece fa ancora caldo e stai sudando”

Forse ho perso un po’ di lucidità. Mi tolgo la maglia a maniche lunghe correndo per un pò a torso nudo cercando di non farmi vedere da nessuno, non sia mai che da qualche parte nel regolamento scritto in giapponese ci sia scritto che è vietato.

“non sei neanche a metà gara e hai già perso la ragione”

Per fortuna salendo la montagna, la temperatura scende e posso tenere la maglia indosso. Verso sera il traffico diminuisce e rimaniamo solo noi sulla strada che diventa magicamente silenziosa. Con la luce del tramonto, i petali dei ciliegi di colore rosa chiaro risplendono. I ristori sono situati all’interno di officine, falegnamerie e luoghi di lavoro, caldi e accoglienti. Il livello di gentilezza dei volontari mi sorprende, non ho mai bisogno di quello che mi offrono e mi dispiace rifiutare le loro continue offerte.

“ti hanno appena offerto una brandina e sei scappato senza neanche salutare”

Arrivo sulla vetta della montagna, apparentemente il grosso della gara è passato senza problemi, al di sopra della mia testa c’è la luna piena e mi sento molto bene. Comincia una leggera discesa e mi sembra di volare, è un momento perfetto, quello che vale il prezzo del biglietto. In piena estasi, supero un paio di concorrenti.

“bravo! Fai il brillante, vediamo alla fine della discesa”

Non m’importa niente delle conseguenze, anche se non dovessi più riuscire a correre, ora sono vivo e corro a tutta, la fatica non esiste. Dopo qualche chilometro comincia un lungo tratto in saliscendi con lunghissime gallerie che attraversando le montagne. L’alternanza del buio della notte e della luce artificiale delle gallerie mi manda in crisi. Sono un po’ confuso.

“sono due notti che non dormi, il giorno e la notte sono quasi invertiti, devi dormire!”

Come spesso succede quando l’equilibrio si rompe cominciano i problemi. Nelle gallerie ci sono 20 gradi, fuori ce ne sono 3-4 e io non ho la lucidità e la forza di svestirmi quando entro e di vestirmi quando esco. Cerco di farlo ma sbaglio i tempi, mi vesto in galleria e mi svesto mentre sto uscendo.

“non ce la fai più, arrenditi all’evidenza”

Mi arrendo all’evidenza, ho preso freddo e mi viene mal di stomaco, devo trovare una soluzione. La paura di non farcela mi ridesta, decido di fermarmi per rimettere insieme i pezzi. Mi sdraio su quella brandina che finora ero riuscito ad evitare.

“bravo, ho dovuto farti venire il mal di stomaco per farti fermare, non puoi consumare tutte queste energie”

Mi addormento e so che dopo andrà meglio ma alzarsi, lasciare un caldo giaciglio e riprendere nel cuore della notte non è semplice. Piano, piano le gambe si scaldano e riprendono a girare. Lo stomaco non è ancora a posto ma riesco a tenere un ritmo dignitoso. Non incontro altri concorrenti da molto tempo, nei paesi dormono tutti. Sono solo, ma finché mi muovo la solitudine non mi pesa. Incontro Claudio che mi dice che sono nei tempi previsti. Ma io so di aver sbagliato i calcoli e di essere in ritardo.

“fai bene a non crederci, hai sbagliato e non arriverai mai dall’altra parte”

Quando i conti non tornano, tutto sembra più difficile di quello che è. L’unica cosa da fare rimane suddividere il problema in sotto problemi più piccoli, come arrivare al ristoro successivo e a quello dopo ancora. Intanto sta per sorgere il sole mentre arrivo all’ultima salita importante. Per fortuna è molto ripida e non può essere fatta di corsa. Mi rendo conto, stupito, di aver sempre corso dalla partenza. Comincio a camminare, il livello di sforzo diminuisce e una strana spossatezza si impossessa del mio corpo.

“se rallenti ti addormenti”

Fatico a tenere gli occhi aperti ma so che se mi sdraio non mi rialzerò più e me ne pentirò. Barcollando arrivo in cima alla salita e in un impeto di rabbia ricomincio a correre, sperando di lasciarmi alle spalle la crisi. Mancano meno di 50 chilometri, il più è fatto.

“50 chilometri sono un’eternità e tutto può ancora succedere”

Come spesso capita, arrivo a un punto in cui tutti i dubbi su un possibile esito negativo si dissolvono e corro senza pensare alle conseguenze. È come se le crisi servissero a risparmiare delle energie per il gran finale. Comincio a recuperare altri concorrenti, leggo sui loro volti una profonda stanchezza. Mentre li supero ci scambiamo un veloce gesto d’intesa, anche loro sanno che in qualche modo arriveranno al traguardo. In quel momento la mia mente e il mio corpo finalmente la pensano allo stesso modo e l’arrivo non mi è mai sembrato così vicino.

“stai tutto sommato bene, ce la puoi fare”

In piena trance agonistica, all’ultimo ristoro abbandono l’attrezzatura per la notte e mi metto i miei amati pantaloncini Wild Tee, una maglietta Hawaiana ed un paio di velocissime Hoka Tracer. Comincio a correre anche in salita, mi sembra di volare. Se mi sbrigo riuscirò ancora a stare sotto le 30 ore, un tempo che nella mia testa rappresentava lo spartiacque tra fare bene e fare male. Correre bene gli ultimi chilometri su 250 è qualcosa di meraviglioso. Sarà questo il ricordo che si cementerà nella mia testa. Arrivo all’ultimo viale che porta al castello di Kanazawa e lo trovo pieno di ciliegi in fiore.

“devo riconoscere che, nonostante le premesse, anche questa volta ce l’hai fatta”