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Una storia da ricordare: salita sulla inviolata parete ovest del Bhagirathi IV

Text & photos by Luca Schiera

C’era una volta un re di nome Bhagiratha. La leggenda narra che quando divenne principe dei Sagara andò a meditare in Himalaya per mille anni per compiacere Ganga, la dea del fiume Gange, in modo da ottenere la liberazione dei suoi antenati dalla maledizione di Kapila.

Ganga gli disse che se fosse discesa dal cielo la forza della sua caduta sarebbe stata devastante. Gli chiese di ottenere il favore di Shiva poiché solamente lui sarebbe stato in grado di sostenerla. Egli accettò e portò la dea sulla terra sotto forma del fiume Gange, riempiendo il mare. Dal ghiacciaio di Goumuk, la sorgente del fiume, salgono le quattro imponenti montagne che presero il nome dal re: i Bhagirathi I, II, III, e IV in ordine decrescente di altezza. 

Questa è la storia della più piccola, il Bhagirathi IV.

Con i suoi 6200 metri è la montagna più bassa del gruppo e la nostra storia con essa inizia quattro anni fa, nel 2015. È inverno e stiamo cercando un obiettivo interessante per la prossima estate ma non abbiamo idee precise. Salta fuori il nome Bhagirathi, io penso sia una zona un po’ satura ormai e non mi aspetto granché. Dalle foto però sembra molto interessante: ha una bella forma, il granito luccica al sole e sembra molto ripido. La sua cima è stata tentata per molti anni senza successo. Decidiamo di partire dopo il monsone.

Il primo impatto è traumatico, a Delhi di notte fa un caldo soffocante, l’aria è satura di umidità e smog, ma solo con la luce del mattino riusciamo a capire quanto è popolata di gente. Per nostra fortuna saltiamo subito in furgone verso le montagne. Il clima diventa decisamente più sopportabile e la temperatura scende fino a che raggiungiamo la fine della strada dopo due giorni di viaggio. 

Siamo a Gangotri, un paese a 3000 m diviso in due dal fiume Gange, meta di pellegrinaggio per induisti e turisti occidentali. Da qui in poi procederemo per due giorni a piedi insieme alla squadra del campo base.

La stagione sembra buona, il monsone è finito in anticipo, c’è bel tempo anche se fa comunque freddo. Partiamo su quella che sembra la linea più logica della montagna, ma appena il sole tocca la parete dopo i primi tiri iniziano le scariche di sassi, non abbiamo modo di ripararci, è solo metà giornata ma decidiamo di scendere.
Con ancora molti giorni a disposizione decidiamo di provare l’altra linea di fessure alla sua destra, il problema vero è che ci porterà esattamente dove lo scisto è più alto e più problematico. Non abbiamo alcuna idea di come sarà quel tipo di roccia e come faremo a superarlo. L’unico modo è provarci. 

La seconda settimana di settembre fa molto freddo e alla mattina dobbiamo scalare in scarpette e senza guanti con vari gradi sotto zero, presto le estremità diventano insensibili e dopo pochi tiri inizia anche a nevicare. Dopo il secondo bivacco raggiungiamo quota 5900 m, c’è una macchia di neve dura, sopra e intorno a me è tutto liscio. Mi calo e pochi minuti dopo esce il sole e la neve su cui mi sono calato sparisce. Torniamo a casa.

Nelle stagioni successive il pensiero del Bhagirathi 4 torna a farsi vivo sempre più spesso, fino a che diventa troppo insistente, dobbiamo ripartire. Arriviamo al campo base in anticipo, il monsone non è ancora passato e addirittura ad agosto nevica, temiamo diventi ancora più freddo di quattro anni fa. Approfittiamo delle giornate brutte per portare il materiale sotto la parete ed acclimatarci. Questa volta siamo davvero pronti. 

Primi giorni di settembre.
Il tempo è perfetto, la parete in ottime condizioni e fa caldo, saliamo al campo avanzato a 5000 m pronti per attaccare la via il giorno successivo. Mentre riposiamo due grosse scariche di sassi si staccano e in pochi secondi investono per intero tutta la nostra linea di salita. Ora che facciamo? Tentiamo comunque? Quello stesso pomeriggio, concordi sul fatto che tentare sarebbe troppo pericoloso facciamo un giro verso le altre pareti. Niente ci convince, torniamo al campo base di nuovo senza un piano alternativo. 

Passano i giorni e l’unica soluzione che ci viene in mente è ritentare la linea più evidente in centro parete, quella che ci aveva respinti quattro anni prima, sperando che con il tempo abbiamo maturato più esperienza e capacità per salirla. 

Partiamo preparati per cinque giorni in parete, sappiamo che passeremo almeno due giorni avanzando per pochi metri, dopodiché speriamo di riuscire a proseguire più velocemente verso la cima, come scendere lo decideremo solo all’ultimo giorno.

Fa molto freddo di mattina, dopo un po’ di tempo con grande sorpresa troviamo una vecchia sosta di calata di qualcuno arrivato direttamente da sotto,  andiamo a vedere cosa abbiamo sopra la testa ma qualcosa non quadra: come mai sono arrivati qua ma hanno proseguito ora che siamo nel diedro? La risposta non tarda ad arrivare, guardando sopra vediamo che la fessura continua verso l’alto ma con lunghe interruzioni per poi sparire completamente dopo circa duecento metri in corrispondenza di un tetto. È una sorpresa inaspettata, eravamo sicuri di avere superato le maggiori difficoltà, se anche riuscissimo a passare ci impiegheremmo tantissimi giorni che non abbiamo a disposizione. L’unica soluzione ci sembra ancora una volta scendere.

Al campo base siamo di nuovo senza un’idea, con poche speranze ma almeno tanti giorni ancora a disposizione. Ritorna timidamente a balenarci la linea di destra anche se non sappiamo come affrontarla. Nei giorni scorsi non ci sono state scariche ma l’idea di essere in quel posto non ci attrae più di tanto, lasciamo passare un po’ di tempo per schiarirci le idee o tornare a casa. Ma non vogliamo lasciare le cose a metà. Siamo arrivati qua per un motivo preciso, vogliamo provarci ma dovremmo essere molto più veloci, il grosso vantaggio è che conosciamo già la via.

Ci svegliamo alla mezzanotte del 15 settembre dal campo avanzato e iniziamo a salire lo zoccolo verso la base della via, non fa freddo e c’è la luna piena. Saliamo i primi tiri al buio, sappiamo quali fessure seguire e guadagniamo quota velocemente nonostante l’arrampicata sia disturbata dai detriti della frana di poche settimane prima. Procediamo velocemente e nel primo pomeriggio arriviamo al bivio che ora sappiamo aver sbagliato la volta precedente.

Dopo alcune manovre un po’ laboriose proseguiamo sul lungo diedro dove la qualità della roccia inizia a calare drasticamente anticipandoci la parte peggiore, lo scisto nero.

È notte e non troviamo dove bivaccare. La cresta sommitale si trova sopra di noi quindi decidiamo di proseguire e raggiungerla. Alle 23 siamo tutti in piedi sulla cima, è buio e purtroppo non possiamo vedere molto intorno a noi, solo i profili delle montagne più alte illuminate dalla luna. Mentre dalla parte ovest scende una parete di roccia alta 800 metri, dalla parte opposta sembra esserci solo un piccolo salto di roccia e un poi un lungo pendio fino a valle, ci caliamo e troviamo un posto per bivaccare. Il giorno dopo ci incamminiamo verso il campo base, impacchettiamo le nostre cose e ci spostiamo sotto un’altra montagna.

Due giorni dopo siamo alla base dello Shivling, forse la montagna più bella della zona, con una caratteristica particolare: le cime sono due e perfettamente simmetriche. La via che intendiamo salire è la più facile delle montagna, la cresta ovest. Parte da 5000 metri con uno spigolo di granito bianco, compatto e con difficoltà crescenti, per poi interrompersi di colpo contro un enorme seracco sospeso a circa 6000 metri. Da lì si può salire indifferentemente una o l’altra cima senza grandi difficoltà. Siamo ben acclimatati ma abbiamo pochi giorni a disposizione, abbiamo paura che il tempo perfetto durato tutto settembre inizi a cambiare.

Saliamo lo spigolo di roccia, e raggiungiamo il seracco nel pomeriggio. Scaviamo una piazzola per la tenda per passare la notte ma i rumori dei crolli ci svegliano, sappiamo di essere al sicuro ma il buio amplifica la paura. Ripartiamo alla mattina, saliamo direttamente il ripido muro di ghiaccio in  due ore. Siamo in questo posto surreale, abbiamo le due cime a destra e sinistra, 500 metri più in alto. Lasciamo l’attrezzatura e proseguiamo uno dietro l’altro fino alla cima, per fortuna il cielo è limpido e finalmente abbiamo una panoramica delle montagne. Scendiamo scalando in discesa il pendio ghiacciato e per fortuna riusciamo a calarci in sicurezza dal seracco. Il giorno successivo siamo al campo base, ora che abbiamo completato tutto possiamo davvero tornare a casa.

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