Simon Messner e Martin Sieberer

Simon Messner e Martin Sieberer: ascesa in Karakorum

Mancano settecento metri alla vetta dell’intoccato Yernamandu Kangri, 7180m, Karakorum. Simon e Martin sono lì, seduti uno vicino all’altro, in silenzio. Se uno dei due dicesse “Basta, torniamo indietro” l’altro acconsentirebbe. Invece, seppur magari pensandolo, nessuno dice nulla. I due, in silenzio, proseguono in mezzo metro di neve verso la vetta con le poche energie rimaste. La nebbia li avvolge, è la prima ascesa.

Simon Messner Martin Sieber Karakorum

“L’alpinismo non lo erediti” mi sembra di ricordare da un’intervista di qualche tempo fa su Simon Messner. Un cognome molto pesante, uno scalare silenzioso. Parlare con Simon di alpinismo ti fa capire cosa voglia veramente intendere quel termine oggi, dove spesso l’agonismo e l’egocentrismo ne oscurano la purezza. Forse perché l’italiano non è la sua prima lingua, o forse proprio per scelta, quando parla delle sue imprese si riferisce alle stesse con il termine “cose belle”. Non record, FKT, prime ascese o imprese… Cose belle.

Era il 25 luglio quando Simon, parte del team di Salewa People, insieme al fedele compagno Martin salivano per primi un ancora inviolato 7000 nel Karakorum. Tremila metri di dislivello in tre giorni, una linea da trovare e salire contando solo sulle proprie forze.

Simon Messner Martin Sieber Karakorum

Partiamo dalla fine. Sono passati ormai due mesi da quando insieme a Martin hai toccato la vetta dello Yernamandu Kangri. Una prima volta per te oltre i 7000, ma una prima volta per la vetta ad essere salita. Com’è stato superare un nuovo limite, che sensazioni hai avuto, cosa ti è passato per la mente in quel preciso momento?

Ci saranno stati 30 metri, con la neve. A nord c’è una cornice di neve. È stato un momento prezioso, c’era nebbia e come spesso accade non abbiamo visto proprio nulla. Pensavo, prima di partire, che sarebbe stato un momento forte, e lo è stato, ma sapevamo anche che dovevamo ancora scendere, oltretutto senza corda. (Il semplice cordino che avevamo ci ha aiutato con la testa, sì, ma se fossimo caduti in un crepaccio non avremmo avuto scampo). Avevamo un bel peso su di noi, e scendere era più faticoso che salire, è strano, ma è così sempre: sei stanco, la concentrazione viene a mancare e alla fine sei lontano dalla civiltà e nessuno ti può aiutare. Avevamo in mente quella montagna da qualche anno, ma mai veramente avevamo pensato di partire. Era molto difficile trovare foto ed informazioni da altre spedizioni ed abbiamo dovuto aspettare per molto tempo il permesso per entrare in Pakistan, che ci è arrivato tre settimane prima della partenza. Alla fine ci è andata bene. Ero molto felice e curioso di andare in quella parte del Pakistan, il sud, il Karakorum: molto verde, la gente è gentile. Siamo arrivati al campo base, dove l’ultima spedizione era arrivata nel 1981. Non abbiamo visto nessuno, proprio ciò che cercavamo. Solo un leopardo delle nevi è venuto più volte in visita, ma di persone, neanche l’ombra. Tutto top. Ci sentivamo bene, forti, ma il meteo non era d’accordo. Nevicava tutto il giorno, siamo rimasti al campo base a giocare a carte, a leggere, poi finalmente la finestra di bel tempo: tre giorni.

Una salita rapida preceduta da un acclimatamento limitato. 3000 metri di dislivello in tre giorni.

Siamo partiti pensando “ci proviamo finché riusciamo ad andare avanti.” Siamo andati avanti veloci, forse troppo veloci. Non pensavo fosse possibile salire 1000 metri in un solo giorno a quelle quote con quelle condizioni e difficoltà. Penso però che quello erano le uniche condizioni per poter portare a termine la salita: quando eravamo in cima il meteo era già cambiato. Tre giorni che abbiamo usato al minuto arrivando fino al limite delle nostre capacità. Ad un certo punto, seduti sulla base della parete finale, ricordo bene che eravamo seduti sul ghiaccio, stanchissimi. Sono sicuro che se qualcuno avesse detto “Basta, torniamo indietro” l’altro avrebbe acconsentito senza dire una parola. Invece nessuno ha detto nulla. Lo ha pensato, ma non lo ha detto. Così siamo andati avanti, in silenzio, è stato strano. C’era un po’ di pressione, quella parete finale non sembrava facile ed eravamo stanchissimi con la neve alta mezzo metro che ci rallentava ad ogni passo. Direi, e anche Martin lo dice sempre, che se avessimo portato anche la più leggera corda non ce l’avremmo fatta: 2-3kg di più ci avrebbero esaurito prima di completare il progetto. È stata una salita borderline.

Simon Messner Martin Sieber Karakorum

Ci racconti la vostra impresa attraverso 6 momenti importanti, dalla scelta della meta a quando sei tornato a casa?

1. In Europa, quando è arrivata la mail in cui c’era il nostro permesso per il Pakistan, lì è cambiato tutto. In quel momento sia io che Martin abbiamo detto “dai, adesso andiamo”.

2. L’avvicinamento, che è andato molto bene: non siamo mai rimasti bloccati, siamo stati veloci, senza malesseri e problemi fisici.

3. Arrivare al campo base, che non esisteva. Era un posto vicino al ghiacciaio che ci sembrava adatto. Il giorno dopo siamo partiti per cercare la linea attraversando il ghiacciaio.

4. L’attesa giorno dopo giorno quando il meteo non era buono. Quando poi migliorava, poter uscire.

5. Salire la via, tracciandola, la connessione tra di noi. A turni ognuno andava avanti, anche a 100 metri di distanza, senza dire nulla, ci davamo il cambio come fosse la cosa più naturale che ci sia.

6. Il momento sulla parete finale, 700 metri con una pendenza di 60 gradi. Il ghiaccio che si trova lì è molto molto duro, quasi cemento. Scalando lì non abbiamo parlato per ore, ognuno scalava per sé stesso fino alla cresta.

(7. Arrivare in cima è un piccolo sogno realizzato per entrambi.)

Simon Messner Martin Sieber Karakorum

Parlando di Martin; siete una squadra affiatata e collaudata da anni che è forse anche uno degli elementi che ha permesso la buona riuscita di questa impresa. Da quanto tempo scalate insieme, cosa vi rende una coppia così unita?

Ho conosciuto Martin 4 anni fa, solo prima di partire per la mia prima volta in Pakistan nel 2019. Ho subito notato che era molto forte, che è uno che ha voglia di fare le cose e le fa senza tanto parlare. Dopo la prima salita insieme è partito tutto, abbiamo fatto un sacco di belle cose anche nelle Alpi come ad esempio la Bonatti sul Cervino in giornata dalla valle. È molto importante trovare una persona che ha più o meno la stessa motivazione tua. Non con tutti i compagni hai questo tipo di connessione. Quando scala non devo mai pensare a lui, ho completa fiducia nelle sue capacità e penso anche lui con me, così funziona. Forse, anzi sicuramente anche il fatto che Martin come me in passato scalava in solo aiuta tantissimo, perché abbiamo più o meno lo stesso livello e se lui riesce a scalare slegato, anche io riesco.

Un’altra parola d’ordine per questa impresa è stile alpino. Che significato dovrebbe secondo te avere la parola alpinismo?

L’alpinismo è un’attività con molta storia. Oggi non si sa più come vedere le cose, capire come si salgono le montagne… Il come è molto importante. La maggior parte di chi può permetterselo, sale le montagne con grande aiuto esterno, diciamo così, e possono farlo. Ma per me l’alpinismo è qualcosa di diverso, è provare a salire una linea della mia mente con le forze che ho io. E lo stile alpino vuol dire averlo fatto senza aiuto se non quello del tuo partner.

L’alpinismo non è uno sport, ha delle connessioni allo sport, ma non è sport. È molto difficile misurarlo, le condizioni cambiano così come il meteo. Parlando del Pakistan, del K2 ad esempio, che è molto vicino a dove eravamo noi, lì è un mondo totalmente diverso, non per forza negativo, ma è un’altra cosa. Due, tre, quattrocento persone che salgono insieme in cima usando corde, ossigeno, elicotteri, campi. Non è sbagliato per forza, ma è diverso. Ad oggi sia per Martin che per me la voglia di andare su un ottomila è zero, ma zero veramente. Non ha niente a che fare con l’andare in montagna. Se sei da solo in montagna ogni decisione sta a te, ma se vai in un gruppo cambia tutto: uno decide e gli altri seguono.

La tua esposizione mediatica è, negli anni, andata in crescendo dai primi anni in cui scalavi senza essere seguito da nessuno. Cosa è cambiato e perché?

Da bambino era normale che la vita di mio padre fosse esposta ai media. In parte era molto normale per noi bambini, dall’altra sapevo che l’esposizione mediatica può aiutare ma non è tutto positivo. Ho sempre letto il mio nome su due siti, sapevo di essere conosciuto nell’alpinismo e per questo ho sempre dovuto stare attento. La gente mi ha sempre osservato, notando ogni passo falso e così ho deciso di farlo per me, per esprimere me stesso e alla fine quei primi anni sono stati il periodo più bello, totalmente libero e spensierato. In quegli anni ho imparato le cose fondamentali, sono andato tanto in free solo, cosa che oggi non farei più, e sono cresciuto come un alpinista normale. Poi non so cosa sia cambiato, sono migliorato e cresciuto, ho fatto belle cose, non lo so. Comunque è sempre importante mantenere una parte di quello che fai, solo per te.

In questa intervista tanti sono i punti che mi piace rileggere, forse perché Simon è riuscito ad esprimere delle cose che non avevo mai sentito prima, forse perché il modo in cui lo ha fatto è diverso e sincero. Nei giorni precedenti all’intervista, forse per il periodo particolarmente intenso per la tematica, mi sono spesso chiesta cosa fosse l’alpinismo. Ora lo so un po’ di più.

Simon Messner e Martin Sieberer