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Un giorno con Francesco Puppi e Henri Aymonod

È un giovedì di agosto, sono nella mia casa nuova sopra a Trento, isolato da tutto e da tutti. Io e il gatto, una tazza di caffè, tanti sentieri e una chitarra con le corde consunte. La settimana prima Denis mi aveva chiesto di salire a Sestriere per scrivere un articolo su Francesco ed Henri e sul loro ritiro in altura. La quota mi avrebbe giovato, ma avevo troppo da fare e così ero stato costretto a rinunciare. Leggo vecchi articoli di Anton Krupicka sui suoi allenamenti nelle estati del 2006 e del 2007: chilometri macinati da solo, sopra alla timberline, dove l’aria è sottile e le gambe bruciano. Gli atleti oggi scrivono sempre meno dei loro allenamenti, e in generale del loro processo, questo principalmente perché nessuno ha più un blog, che è stato il principale mezzo di crescita di questo sport. E sulle riviste, articoli così d’altronde sono sempre più rari, sebbene, ne sono convinto, contino quanto una settimana di allenamento. Penso a queste cose e poco dopo mi arriva un messaggio di Francesco che mi chiede di leggere il suo pezzo, prima di consegnarlo alla rivista. Era quello di cui avevo bisogno. Ora esco a correre. – Filippo Caon

Dopo quasi un’ora di salita, a pochi metri dalla vetta del Bric Ghinivert, in alta Val Troncea, mi sento mancare le energie. Il vento gelido dei 3000 metri di quota mi taglia il fiato, mi gira la testa e le gambe pesano come macigni. Annaspo cercando di inalare quanto più ossigeno possibile e mi arrampico con le mani tra i massi di granito, seguendo una traccia approssimativa. Alzo lo sguardo e Aymo mi fa un cenno urlandomi qualcosa, affacciato da uno dei bracci della croce di vetta. Un paio di minuti dopo, superata una cengia esposta sulla parete sud, lo raggiungo e mi rannicchio in una fessura al riparo dal vento. Una coppia di gipeti si leva sfruttando una corrente ascensionale, veleggiando senza un singolo battito d’ali. Mi tolgo il vest, scatto qualche foto, tiro fuori un paio di waffles e una flask con dell’acqua per rifocillarci.

“Oggi bene eh, Aymo? Che aperta, prima del colle. Io ero un po’ stanco, mi avrai dato due minuti negli ultimi 15’ di salita.”. – “Si Fra, oggi stavo bene, siamo saliti forte. L’altro giorno non avevo ancora recuperato la gara e il viaggio. Poi sai, quando hai molte cose per la testa.” – “Si, lo so.” Mi allungo spontaneamente verso di lui e gli stringo un braccio attorno al collo. Rimaniamo in silenzio per un paio di minuti. “Dai, scendiamo. Ma con calma, che sono stanco.”

Verso i primi di luglio, appena il tempo di riprendermi dalla 50km di Lavaredo, ho chiamato Henri “Aymo” Aymonod e gli ho buttato lì l’idea di trascorrere tre settimane di allenamento in quota. Ancor più degli adattamenti fisiologici positivi dell’altura, l’emoglobina, i globuli rossi, eravamo forse in cerca di solitudine, di uno scorrere del tempo più lento, più umano, quasi un’evasione dalla routine delle nostre vite a quote più basse, una ricerca di stimoli e risposte che solo condividendo l’intensità di uno sforzo fisico come la corsa avremmo potuto trovare. Tra Sankt Moritz, Livigno e Sestriere, le classiche location scelte dagli atleti per l’altitude training, abbiamo optato per l’ultima, quella che sentiamo più affine, allo stesso tempo probabilmente la più dimenticata, aspra e allenante. Ai 2035 metri del colle ci sono la calma, i sentieri, l’aria sottile e le poche attrezzature di cui abbiamo bisogno. C’è un’altra ragione – sentimentale forse – per cui abbiamo scelto di venire a Sestriere: qui ci siamo conosciuti una decina di anni fa, quando ancora eravamo giovani e ignari di tutto, e correvamo per salvarci la vita. Così abbiamo riempito il van di Aymo di carboidrati, abbiamo caricato le bici e siamo finalmente saliti in questo lembo estremo di Piemonte.

Sestriere è un luogo surreale, trasfigurato dagli abusi edilizi del boom economico prima, e delle Olimpiadi di Torino del 2006 poi. La monocoltura dello sci alpino ha trasformato tanti posti come Sestriere in caroselli d’inverno, e in luoghi spettrali d’estate, con le ruspe, gli ski-lift fermi, i condomini vuoti. Per rendere le montagne attraenti non è necessario disseminarle di costose e impattanti infrastrutture: la natura le ha già dotate di tutto ciò che serve. Cosa che tante località alpine ancora non sembrano aver capito. Sono temi di cui parlo con Aymo, che queste dinamiche le vive quotidianamente a casa sua, in Valle d’Aosta. Tralasciando il paese, l’ambiente attorno a Sestriere è incantevole e perfetto per allenarsi secondo il nostro stile, che si potrebbe riassumere in tre parole, che ho usato come titolo per il mio podcast: any surface available, ogni superficie disponibile. Ai 2400 metri del Col Basset puoi correre su 40km di sterrato della strada dell’Assietta, dove Bordin ha costruito i suoi successi di Seoul 1988 e Boston 1990: è la Magnolia Road delle Alpi. Poco più in basso, il sentiero Bordin riecheggia dei chilometri percorsi e consumati da maratoneti e mezzofondisti di fama mondiale. Sull’Albergian si possono fare 1500 metri di dislivello in poco più di 5km di salita. La Valle Argentera offre singletrack perfetti, vette vertiginose e panorami da Yosemite Valley.

 

Il nostro stile è anche quello di introdurre variabilità e imprevedibilità nell’allenamento, e con Aymo non può che essere così: lui è talento e follia, io sono più metodo e lavoro duro. Siamo affini e allo stesso tempo complementari. Quando sei in giro con lui per una easy run, può capitare da un momento all’altro che faccia un’aperta, un allungo, solo perché ispirato dalla linea del traverso su cui stiamo correndo, o per imitare uno scatto del suo idolo Mathieu Van Der Poel. Nello stesso momento, io probabilmente presterei più attenzione a conservare le energie per il lavoro del giorno successivo, o a recuperare i chilometri del precedente. Aymo va molto forte in salita; non è un atleta esplosivo ma ha una progressione terrificante, procede quasi a balzi, a bassa cadenza, sfruttando tutta la stiffness delle sue lunghe leve. Io al contrario ho un gesto molto più economico, non mi sento davvero forte in nulla, ma posso far valere le mie capacità di corsa in pianura e su quei terreni che sfuggono ai profili altimetrici dei percorsi. Aymo è un atleta TNF, nato e cresciuto all’ombra della Grivola, tra Villeneuve e la Val di Rhemes, a suo agio sugli sci da alpinismo, in grado di scalare il Bianco, di portare a termine diversi Mezzalama; è studente di agraria all’Institut Agricole Regional ed è laureato in scienze motorie a Torino. Io sono un atleta Nike, imbevuto di cultura track and field da Prefontaine in poi, vengo dall’ambiente di media montagna delle Prealpi lariane, sono forse più a mio agio sulle strade della maratona di New York che su una skyrace tecnica, non ho mai scalato un 4000, ragiono con la mente di un fisico.

Il nostro stile è anche quello di introdurre variabilità e imprevedibilità nell’allenamento, e con Aymo non può che essere così: lui è talento e follia, io sono più metodo e lavoro duro. Siamo affini e allo stesso tempo complementari. Quando sei in giro con lui per una easy run, può capitare da un momento all’altro che faccia un’aperta, un allungo, solo perché ispirato dalla linea del traverso su cui stiamo correndo, o per imitare uno scatto del suo idolo Mathieu Van Der Poel. Nello stesso momento, io probabilmente presterei più attenzione a conservare le energie per il lavoro del giorno successivo, o a recuperare i chilometri del precedente. Aymo va molto forte in salita; non è un atleta esplosivo ma ha una progressione terrificante, procede quasi a balzi, a bassa cadenza, sfruttando tutta la stiffness delle sue lunghe leve. Io al contrario ho un gesto molto più economico, non mi sento davvero forte in nulla, ma posso far valere le mie capacità di corsa in pianura e su quei terreni che sfuggono ai profili altimetrici dei percorsi. Aymo è un atleta TNF, nato e cresciuto all’ombra della Grivola, tra Villeneuve e la Val di Rhemes, a suo agio sugli sci da alpinismo, in grado di scalare il Bianco, di portare a termine diversi Mezzalama; è studente di agraria all’Institut Agricole Regional ed è laureato in scienze motorie a Torino. Io sono un atleta Nike, imbevuto di cultura track and field da Prefontaine in poi, vengo dall’ambiente di media montagna delle Prealpi lariane, sono forse più a mio agio sulle strade della maratona di New York che su una skyrace tecnica, non ho mai scalato un 4000, ragiono con la mente di un fisico.

 

In venti giorni di altura c’è tempo per condividere tante cose oltre alla corsa. Con Aymo finiamo a parlare di mercato immobiliare tanto quanto di teoria dell’allenamento, delle differenze tra i gruppi Sram, Campagnolo e Shimano, di silvicoltura, di fotografia, di psicologia, di outdoor e di musica elettronica. I momenti che dal mio punto di vista fanno la differenza sono soprattutto i silenzi, le pause, i nanosecondi in cui non succede niente ma che hanno significato in loro stessi, e se non sei mai in imbarazzo, se non senti la necessità di riempirli di parole o gesti di circostanza, capisci di essere nel posto giusto e con la persona giusta. “Fra, oggi sono dal culo.” – “Aymo, allenarsi è questa cosa qui. L’80% delle volte non hai buone sensazioni, ti senti fiacco, le gambe sembrano vuote. Devi abituarti al mileage, a correre da stanco, a risparmiare quando serve e a spingere quando conta.” – “Sì, ma oggi pomeriggio mi sa che riposo.” Dall’alto dei miei 12 allenamenti settimanali, vorrei alle volte avere la sua capacità di ascolto e di saper dire di no.

 

Il programma del nostro training camp è ambizioso. Dopo l’adattamento iniziale alla quota il piano prevede due settimane da almeno 180km e diversi lavori in sequenza molto impegnativi. I miei prossimi appuntamenti agonistici sono Sierre-Zinal e OCC, tra metà e fine agosto, ma per come sono fatto e per come interpreto questo sport, non sono l’unico motivo per cui mi trovo qui. Non ho bisogno di una leva motivazionale data da un obiettivo, mi piace correre e allenarmi for the sake of it, non ci vedo necessariamente del finalismo in tutto questo. Serve di sicuro una buona dose di coraggio, o forse di autolesionismo, per finirsi sull’altare dell’inutile. Aymo non è abituato a questi volumi mentre io ho un’esperienza di gran lunga maggiore, sia in termini di allenamenti che di gare. Lo guardo e vedo un ragazzo curioso, intelligente e ambizioso, ancora acerbo per certi aspetti, ma consapevole dei propri mezzi e molto sicuro di sé. Diviso tra due fuochi: essere in qualche modo legato alle sue sicurezze e la voglia di scoprire e fare nuove esperienze. Il talento straripante che in qualche modo gli invidio, la necessità di plasmarlo e di dargli solidità e continuità. Gli occhi che ancora gli si illuminano di entusiasmo per le cose, la passione per le persone. La sua competitività contrapposta alla voglia di vivere il lato più avventuroso e libero del trail, su distanze più lunghe, FKT e progetti personali. Correre insieme, progettare e condividere un blocco di allenamento, è un modo per alzare l’asticella e, se sei bravo abbastanza, per assorbire per osmosi tante piccole cose che potrebbero renderti un atleta migliore. È un processo di apprendimento orizzontale, che avviene in maniera non intenzionale, soprattutto durante i vuoti che provavo a descrivere prima.

 

Finiamo a parlare di US; Aymo è appena tornato da Broken Arrow, sul Lake Tahoe, dove ha corso con buoni risultati il vertical e la skyrace, anche se – mi racconta – aveva la mente parecchio altrove. Discutiamo di Parchi nazionali, di strade, di deserti, di sci alpino, di impatto ambientale. Riflettiamo sul fatto che in Europa manchino gruppi di allenamento strutturati, squadre come l’Oregon Track Club o NAZ Élite, ma anche semplicemente atleti che vivono, si allenano insieme e si comportano come un team, come potevano essere fino a pochi anni fa i Coconino Cowboys, o come capita in comunità come Flagstaff, Boulder o Mammoth Lakes. Succede su scala minore a Chamonix, epicentro della scena trail a livello mondiale, ma non ancora in termini che definirei una community. Sono tante le differenze tra il trail europeo e quello americano, e una di queste è il modo in cui gli atleti percepiscono sé stessi all’interno dello sport che praticano. Ha molto a che fare con le opportunità che esistono, si creano e che ad essi vengono date, ma ho la sensazione che negli USA, tante volte, una gara sia più una semplice scusa per ritrovarsi tutti insieme a correre in una foresta, e che il trail, più che uno sport, sia espressione di un modo di essere e in fondo, di stare al mondo.

 

Ritrovo parecchio di tutto questo nella persona che è Henri, un ragazzo in grado di riempire di significato molte delle cose che fa e di trasmettere entusiasmo. Mi piacerebbe far capitare occasioni del genere più spesso, magari fino a costituire un gruppo di allenamento, di persone con la nostra stessa voglia di andare fino in fondo a questa passione. Non so se Sestriere possa essere il luogo adatto per farlo, ma so per certo che quello che abbiamo condiviso questa estate, nell’aria sottile, nella polvere, sui sentieri, le creste e gli alpeggi al confine tra Val Chisone e Valle di Susa, sarà per entrambi importante.