EDITO
Si sarebbe dovuta concludere venerdì 12 novembre. Si è prolungata di un giorno, fino alla notte di sabato. Della Cop26 restano fiumi di dichiarazioni, accordi e impegni, ma anche la sensazione, cristallizzata nella commozione finale di Alok Sharma, che sia stata un’altra occasione persa nella lotta al cambiamento climatico.
È inevitabile la difficoltà di mettere d’accordo tutti i Paesi presenti, così come è indubbia l’evoluzione che si è avuta dalla firma del Protocollo di Kyoto del 1997. Ma andando a fondo, nel diluvio di parole, ci si rende conto della povertà dei fatti compiuti a Glasgow. I più ottimisti sintetizzano il quadro su un’intesa che «salva gli impegni presi a Parigi». Appunto, presi a Parigi, sei anni fa.
Certo, è stato mantenuto l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, quando oggi già viviamo, drammaticamente, un incremento di 1,1°C. Obiettivo che richiede riduzioni rapide, profonde e sostenute delle emissioni di gas serra e anidride carbonica. Ma ricordiamoci che 11 milioni di dollari al minuto vengono dati alle compagnie petrolifere e società connesse alla distribuzione dei loro derivati. Il Fondo monetario internazionale ha dimostrato che nel 2020 l’industria estrattiva ha ricevuto contributi pubblici per 5.900 miliardi di dollari, il 6,8% del Pil mondiale destinato ai sussidi per le fonti fossili. Sono questi stratosferici interessi ad aver rallentato in Scozia l’avvio di una conversione ecologica sempre più urgente e rivendicata a gran voce da milioni di giovani. Nella notte tra sabato e domenica, oltre la scadenza ufficiale, il passaggio in cui si imponeva l’eliminazione dell’energia elettrica sviluppata tramite carbone si è tramutato in una “riduzione graduale”.
Da “phase-out” a “phase-down” per essere precisi. Una richiesta di paesi come India e Cina che su di esso contano pesantemente e vorrebbero ancora poter contare, vista la grande fame di energia a cui saranno soggetti nei prossimi anni. Certo, è la prima volta che nella conferenza delle Nazioni Unite si cita espressamente questo combustibile. Si tratterà di capire quindi come accelerarne l’uscita di scena con una forte spinta sulle rinnovabili. Ma l’India, nel frattempo, ha in progetto l’apertura di 55 nuove miniere e l’ampliamento dei 193 impianti estrattivi già esistenti. E in Europa? Mentre agitano gli stracci sul dopodomani per un futuribile nucleare di nuova generazione, i leader siedono già a capotavola dei fondi della Next Generation.
Questi i fatti, dietro gli annunci a favore di telecamera, davanti alla Fontana di Trevi o al cospetto del Principe di Galles. Un gioco a cui abbocca volentieri l’informazione mainstream con inserti “green” oramai dilaganti, zeppi di storie e storielle. O si tiene insieme la lotta contro la “crisi climatica” con la lotta per la “giustizia climatica”, o si disperde quanto sprigionato dalle mobilitazioni intorno alla Cop26. La polarizzazione e il disagio economico richiedono risposte coraggiose e strutturate, non strani alambicchi nelle stanze dei partiti. Così come stanno le cose, come dar torto al commento conclusivo di Vanessa Nakate: «Non possiamo adattarci alla fame. Non possiamo adattarci all’estinzione. Non possiamo mangiare carbone. Non possiamo bere petrolio. Non ci arrenderemo».
Davide Fioraso