EDITO
Pur sforzandomi, non riesco a ricordare l’ultima volta in cui mi sono trovato senza fare niente. E per niente intendo proprio niente. Nemmeno dare il via ad una sessione di scrolling compulsivo, aggiornare la casella di posta o tenere un podcast di sottofondo, quasi a replicare lo schema di quelle madri che lasciano la tv accesa solo perché “sentire qualche voce fa tanta compagnia”. Negli ultimi anni abbiamo instaurato un rapporto a dir poco conflittuale con il nostro tempo libero, ben delineato dal teologo francese Blaise Pascal nella sua opera intitolata Pensieri: “tutta l’infelicità dell’uomo sta nel non saper restare quieti in una stanza”. Un’affermazione che manifesta la nostra totale incapacità di interrompere la routine. Sebbene il lockdown ci abbia ricordato con prepotenza i buoni motivi per uscire da “quella stanza”, trascorrere momenti di vuoto non significa necessariamente rinunciare a tutto ciò che c’è fuori (o rimanere indietro rispetto a chi sta continuando a correre).
L’ansia che sorge da queste circostanze è stata battezzata come “oziofobia”. Quel dolce far niente, che i nostri nonni vedevano come un dono, aspettando impazientemente la domenica per rilassarsi e riposare, oggi è percepito come paura. Non avere programmi genera sensi di colpa e frustrazione per non aver impiegato il tempo nel modo giusto. In ogni momento, in ogni situazione dobbiamo a tutti i costi fare qualcosa. Una sorta di terrore del vuoto che tendiamo a combattere con agende piene di impegni, con una routine capace di rassicurarci, traducendo l’ansia in un impulso all’azione. Un medicinale che ha un effetto collaterale pesante: l’impostazione routinaria e schematica che imponiamo alla nostra vita fa piombare tutto ciò che facciamo nel baratro dell’equivalenza. Non importa con cosa abbiamo deciso di riempire il tempo, ciò che conta è non rimanere soli. Il risultato è un atteggiamento che ripara dalle angosce creando azioni ripetitive, il cui esito è l’impossibilità di fermarsi a pensare. Probabilmente non ci rendiamo conto che questa ripetitività, più che rappresentare una strategia difensiva, è diventata la nostra condanna, la nostra “fatica di Sisifo”, molto simile alla punizione inflitta al protagonista del mito, rinchiuso nell’Ade e costretto a trasportare in cima ad una montagna un masso che inesorabilmente ricade appena toccata la vetta, simbolo di qualsiasi impresa inutile, destinata a vanificarsi non appena compiuta. Un “condannato libero”, secondo Albert Camus, cosciente del suo destino.
Oggi abbiamo rinunciato alla possibilità di fermarci a pensare in favore di una ripetitività schematica che ci fa sentire al sicuro. Continuare a lavorare rincorrendo il weekend, per poi saturare tutte le nostre ore fino alla domenica sera, prenotare le vacanze nei villaggi turistici, dove seguire programmi decisi da altri dà la sensazione di aver svolto correttamente il compito affidato. La corsa a perdifiato che continuiamo a imporci, non è che un altro modo di spingere la pietra, preoccupati di arrivare in fretta alla vetta. Le tecnologie e il mondo del web stanno sviluppando l’illusione che si possa fare tutto e che non ci sia spazio per attimi morti, attribuendo importanza al nostro ritmo delirante. E invece, anche se ci fanno paura, dovremmo accettare i vuoti, perché ci mettono in contatto con noi stessi, con le nostre emozioni. Fermarsi è un ottimo modo per godersi il riposo e valutare se stiamo andando nella strada giusta. È il buco in agenda a rappresentare la terapia più adatta, perché ci mette di fronte a quello che ci intimorisce di più: il dover dare una direzione a ciò che facciamo. Non dimentichiamo che la noia attiva l’emisfero destro del nostro cervello, quello delle intuizioni, della creatività. È come se stare senza far niente ci liberasse dalle tossine accumulate in mesi di impegni e stress, dalle catene del tempo.
Per imparare a vivere meglio, dovremmo imparare ad annoiarci di più.
Davide Fioraso