L’eco ansia non è un lusso per pochi
Sono sempre più numerose le storie di persone che soffrono di eco ansia, ovvero l’angoscia che nasce dal constatare che il mondo sta andando a rotoli. Tra i tanti aneddoti sul tema, parto da una singolare testimonianza riportata in un articolo del New York Times. Alina Black, 37enne di Portland, racconta di venir assalita da angoscia e senso di colpa a ogni cambio pannolino del suo bebè, consapevole che quel gesto quotidiano contribuisce all’inquinamento del pianeta e alla crisi climatica. Al mattino, dopo aver allattato, Alina cade in un buco nero, affondata dalle notizie su siccità, incendi ed estinzioni di massa.
Lo spunto di riflessione l’ho avuto qualche settimana dopo, imbattendomi in un reportage sul ciclone Idai, la tempesta tropicale che nel marzo 2019 ha colpito l’Africa centro-orientale causando gravi inondazioni in Malawi, Zimbabwe e Mozambico. Le donne di quel documentario, non solo non avevano mai avuto pannolini da buttare (e per i quali chiedere perdono al mondo), ma vivevano in uno stato di perenne allerta e devastazione. È qui che mi sono chiesto: ma quelle donne, provano la stessa preoccupazione per il futuro del pianeta provata da Alina Black? Chi è già pesantemente colpito dalla crisi climatica ha tempo e modo di soffermarsi sulle proprie sensazioni? O sopravvivere è già di per sé talmente impegnativo da non lasciare spazio alle inquietudini interiori?
Le risposte le ho trovate su diversi articoli di approfondimento, tutti concordi nell’affermare che l’eco ansia non è un lusso occidentale. Che la salute mentale non è appannaggio esclusivo di coloro che vivono nei paesi sviluppati del Nord globale. Chiunque, indipendentemente dal suo status, riesce chiaramente a comprendere come l’ambiente impatti sulla salute. Tuttavia, come inevitabile che sia, nei paesi che dispongono di risorse inferiori, la cura delle malattie fisiche finisce per essere la priorità più urgente.
A volte, per combattere l’ansia climatica, viene suggerito alle persone di fare meditazione, costruire resilienza, creare spazi in cui condividere i propri sentimenti. O perché no, passare all’azione. Ristabilire un contatto con la natura è un altro dei suggerimenti che viene dato a chi soffre di ansia climatica. Ma questa strategia, per quelle popolazioni che da sempre vivono un rapporto ancestrale e di simbiosi con la Terra, non ha molto senso. “La soluzione all’eco ansia in questi paesi è un maggiore sostegno per aiutare le popolazioni a superare e gestire le crisi climatiche che devono affrontare. Le popolazioni ricche devono agire per ridurre la loro impronta di carbonio e fornire sostegno ai paesi a basso reddito, in modo che possano superare i disastri climatici, compensando in parte questa enorme ingiustizia” afferma la professoressa Mala Rao.
Alla fine di queste letture, quello che ho capito è che tutti soffriamo in egual modo. Ciò che cambia è l’assistenza alla quale abbiamo accesso e il margine di azione per invertire la rotta. La povertà estrema e la vulnerabilità, sono elementi che necessariamente finiscono per avere priorità nella scala delle preoccupazioni, ma sono anche quelle più facilmente visibili e sanabili. Vivere nel Nord del mondo, con tutti i privilegi annessi, non fa delle nostre ansie qualcosa di irrilevante. La soluzione, però, non sta solo nelle buone azioni quotidiane che ci fanno sentire in pace con noi stessi, ma nell’esigere dai nostri governi risposte appropriate alla gravità della situazione. Un’attenzione che sia istituzionale, collettiva e globale, così come la catastrofe che stiamo vivendo.
Davide Fioraso