EDITO
Siamo al Bookstore di Pearl Street a Boulder, Colorado: tre piani, scaffali in legno, un banco da architetto per incartarsi i libri da sé, il terzo Brandeburghese in sottofondo. Dietro alla cassa c’è una sezione di riviste con un paio di sgabelli su cui sfogliarle. Penso a un vecchio film di Joel Wolpert, con Krupicka seduto su uno di quegli sgabelli a leggere Alpinist. Sono passati dieci anni e io e Denis ce ne stiamo lì a sfogliare le stesse riviste leggendarie: Outside, Alpinist, Ultrarunning Magazine. Outside ha la redazione qualche centinaio di metri dopo la libreria, sempre in Pearl Street. Ci fermiamo lì davanti a fissare la testata stampata sulla porta in vetro dell’edificio, con una certa soggezione, poi proseguiamo e cerchiamo una gelateria. Le betulle sono arancioni e l’autunno è inoltrato. Da Burton tiriamo su un paio di free press di snowboard, sono uguali a quelli di vent’anni fa. «Quando viaggio torno sempre a casa con delle riviste» mi dice Denis, «non so se le leggerò mai tutte ma mi piacciono, mi piace averle in casa, mi piace guardarle li tutte esposte e come la memoria storica dei miei viaggi forse della mia vita.»
Denis fa riviste da quando ha la mia età, e questa è la sua ventesima e rotta volta negli Stati Uniti per lavoro, per me è la prima. Io ho sì e no l’età che aveva lui quando ha iniziato, ma in entrambi i casi, almeno in un certo momento della nostra vita, abbiamo idealizzato questo lavoro. A sfogliare Outside oggi non è poi questa gran cosa: certo, è la rivista dei racconti di Krakauer, di Into the Wild e di Aria sottile, ma la carta è scadente, le foto sono mediocri. Comunque, per me resta avvolta da un irriducibile fascino.
Ho iniziato a scrivere per una rivista perché amo il concetto stesso di rivista. Amo le riviste come oggetto, amo le edicole. Avete presente i Sogni segreti di Walter Mitty? Con Sean Penn che fa il fotografo per Life e spedisce i negativi a Ben Stiller che lavora nascosto in un seminterrato? Ecco, quella cosa lì. Il nostro lavoro è così? Raramente. Ma ora sono negli Stati Uniti per scrivere un pezzo, ed è quanto basta.
Mentre scrivo un reportage quella diventa la cosa più importante della mia vita, indipendentemente da come è fatto, non ha importanza. In quel momento diventa la cosa a cui tengo di più e la migliore che ho scritto. Poi l’articolo viene pubblicato e me ne dimentico, o quantomeno non lo trovo più così importante o così bello. Non so se sarà così anche questa volta, ma penso che questo numero, per il momento, si avvicini più di ogni altro al mio ideale di rivista. Lo soddisfa completamente? No, ma ne sono comunque molto soddisfatto.
Dentro ci trovate diversi reportage, interviste, articoli di prodotto, insomma, un po’ tutto quello che serve, e in più, ci trovate anche uno speciale, uno speciale davvero lungo: 50 pagine, quattro stati, due fusi orari, tre deserti, una catena montuosa. Uno speciale che parte da un’idea: ripercorrere un movimento che da ovest, dalla California, dove l’ultrarunning è nato negli anni Settanta, torna verso est, verso le montagne, come una marea, e arriva a Boulder, in Colorado, dove questo sport si è sviluppato ed è cresciuto, e dove forse ha iniziato la sua fase discendente, e d’altronde dove è finito il nostro viaggio.
Abbiamo ripercorso la storia di questo sport, attraverso i luoghi che l’hanno segnata, per provare a vedere dove siamo finiti e dove stiamo andando.