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The Pill’s Fan Stories: Quella rotta balcanica


Salagok crew
Speleolivorno

Testi: Marta Lazzaroni
Revisione: Elena Casolaro & Giulio Della Croce
Fotografie: Andrea Cioni Massagli & Emma Galmarini

Qualcuno una volta mi disse:

“Nessuno è nessuno,

Ognuno è qualcuno.”

Qualcuno una volta mi disse:

“Nessuno è nessuno,

Ognuno è qualcuno.”

Sono sempre stata molto attratta sia dai luoghi che dalle persone che hanno storie da condividere. Mi ci sono voluti circa due anni e la giusta testata per far venire alla luce queste storie, ma credo che questa esperienza meriti di essere raccontata.

Idemo da Vidimo kravu, ’’andiamo a vedere la mucca’’

ll Duster preso in prestito da mia madre era carico all’inverosimile e noi, stipati in quell’auto, ci davamo il cambio alla guida. Passammo da Padova a prendere Bruno, che sembrava spaventato da quanto fossimo carichi. Ci raggiunsero strada facendo anche Andrea ed Emma con la loro auto. 

Con il team al completo passammo le frontiere una ad una fino ad arrivare in Bosnia-Herzegovina: qui consegnammo i documenti a coloro che ci guardavano storti da dietro il casello. Ci chiesero di aprire l’auto, un frontaliero ne guardava con sospetto ogni polveroso angolo, chiedendosi (forse) che ci faceva un gruppo di italiani laggiù. Alle loro domande su che cosa ci facessimo con tutti quegli zaini e quel materiale rispondemmo: “Mountaineering”. 

Entravamo così nel nord della Bosnia, ci aspettavano ancora quattro ore di viaggio fino a Srebrenica. Mano a mano che ci inoltravamo in Bosnia il paesaggio mutava e diventava sempre più rurale, sembrava di entrare in una vecchia fotografia scolorita degli anni ’60. La benzina ce la tiravano dietro e anche il cibo era a buon mercato…buono a sapersi – pensammo. 

Arrivati a Srebrenica ci fermammo a casa del nostro uomo in Bosnia, I., che poco dopo ci accolse nella sua casa-ostello, il punto di partenza delle sue visite guidate. Io e Giulio lo avevamo conosciuto un anno prima grazie all’associazione Agronomi senza Frontiere (ASF). 

ASF ci aveva dato l’opportunità di andare là a conoscere il progetto di riappropriazione della cultura e delle terre appartenenti ai locali prima della guerra del ‘92-‘94. Eventi terribili ed indicibili che sventrarono letteralmente animo e futuro di queste zone. Preparammo subito una bella pasta e passammo la serata con I. per organizzare insieme le nostre visite-esplorazioni.

L’idea di fondo di questo viaggio era ripercorrere una delle vie di fuga dei combattenti Bosniaci durante la guerra serbo-bosniaca avvenuta nei primi anni ’90 e tracciare questo percorso storico-culturale-montano: la rotta della libertà. Idealmente il percorso partiva da Srebrenica e passava sulle alte sponde nascoste dei boschi della Drina, costeggiando il confine fino ad arrivare a Luka, un luogo considerato sicuro e demilitarizzato. Tutto questo, cercando di localizzare quelle che loro chiamavano “grotte”: più o meno grandi scavernamenti utilizzati come luogo di rifugio per sopravvivere durante la guerra civile, al freddo, cercando di nascondersi anche in 20/30 persone. Gli sfollati che ci finivano erano persone di sesso maschile dai 14 ai 70 anni. Ne abbiamo trovati solo alcuni.

L’uomo dagli occhi color di cielo

Gli occhi azzurri di E.  ci osservavano come se dicessero meno della metà di quello che avevano visto. Ed in effetti era così: Emma provava a tradurre dall’ italiano al francese (unica lingua che avevamo capito essere in comune tra noi) le nostre domande al nostro nuovo amico, tentando di oltrepassare la barriera linguistica che ci separava. Il pastore ci raccontava la sua esperienza come rifugiato in queste grotte. Lui e suo nonno erano sfuggiti al rastrellamento e si erano uniti ad una carovana di persone diretta verso il territorio demilitarizzato di Luka: la salvezza. E. ci catapultò in questa terra inesplorata e ne uscimmo innamorati, non so esattamente di cosa: del luogo, delle persone o forse solo dei suoi meravigliosi occhi azzurri. 

Eravamo la principale attrazione di quel bar-capanno dove si sparse la voce che degli stranieri erano in visita. Continuava ad arrivare gente e sedersi a mangiare o bere con noi, ci fissavano e provavano a comunicare chiedendo di tradurre al nostro comune amico con gli occhi color del cielo. In genere il tutto finiva con grandi sorrisi e brindisi. Uno di loro si avvicinò e chiese ad Andrea se poteva fargli una fotografia e portarla in Italia, per trovargli una moglie bella come la nostra amica Susana (che riscuoteva grande successo in terra balcanica). Si mise in posa, ed Andrea lo ritrasse tutto impettito con una sigaretta nuova in bocca, l’orgoglio nel taschino e la sua macchina rossa sullo sfondo.

Siamo noi gli ospiti

Ci eravamo stabiliti con le tende in uno spiazzo ai margini del bosco sul grande altopiano della Drina, in una zona chiamata Biele vode (acque bianche). C’era una vecchia costruzione fatiscente, una residenza estiva di caccia per gli ufficiali del regime. Questa riserva di caccia e la radura davanti al fabbricato venivano utilizzate per attirare orsi e cinghiali con della pastura ed ucciderli: un modo facile per cacciare. Pare che questa zona sia famosa tutt’ora come area di caccia e pesca. Lupi, orsi e grandi pesci abitano attorno questo grande fiume, che è anche una linea immaginaria che separa dei popoli. Terre di confine, terre di conflitto. 

Il secondo giorno arrivarono delle guardie, e ci fecero capire che dovevamo andarcene perché la Drina fa parte di un parco e non era consentito campeggiare in quell’area (tutto questo a gesti, perché la guardia conosceva solo il Bosniaco e noi ovviamente no). Io ero già pronta a “begare”, ma conscia del mio sesso e del fatto che il gruppo doveva pur dormire da qualche parte decisi di lasciare la patata bollente a Giulio, che è risaputo essere un ottimo dialogatore. Beh, morale della favola, in 5 minuti ottenne, non si sa come, il permesso di dormire lì un’altra notte. A suo dire semplicemente nominando il nostro “uomo in Bosnia” I., che venne prontamente chiamato al telefono e ci tradusse gli accordi con la guardia. In Bosnia sono gli uomini a comandare e a prendere decisioni, almeno per quanto riguarda la facciata. La stessa cosa detta da una ragazza non ha alcun peso, detta da un ragazzo viene considerata. Noi giovani Europei non siamo abituati a questo sessismo ma, che mi piacesse o meno, ero io l’ospite in un altro paese e dovevo stare alle regole del luogo. Devo dire che dopo un primo impatto con questo fatto ho anche trovato divertente chiedere ai miei compagni di riferire le mie idee.

Dopo che fummo “sfrattati” scrivemmo per chiedere consiglio su dove dormire ad un altro ragazzo, M., che saremmo andati a trovare qualche giorno dopo stando alla nostra tabella di marcia. M. ci venne subito incontro dicendo di incontrarci al lago sulla Drina: qui abbiamo passato una notte dormendo sulla zattera-bar di un suo conoscente. Con M. le comunicazioni erano molto più semplici perché parlava Inglese, cosa comune tra i giovani. Nel ‘93-94 questi (allora) bambini furono sfollati dall’area rurale di Srebrenica e mandati a Sarajevo dai parenti, oppure più a nord o in paesi limitrofi, come in Italia o in Slovenia, grazie ad alcuni programmi dell’ONU. Il giorno successivo ci ospitarono nel paese di Osmače dove viveva la famiglia di M., cogliemmo così l’occasione per fare una visita.

Li trovammo che macellavano e arrostivano un grosso caprone nel garage. Dissero che si era rotto una zampa e non avrebbe avuto possibilità di sopravvivere, ma sapevamo che lo avevano ammazzato per noi. Fu di nuovo festa per tutta la sera. I Bosniaci amano la compagnia e soprattutto avere ospiti, si fa presto a sentirsi a casa. In genere c’è una prima diffidenza iniziale, che viene immediatamente abbattuta, e compare una forte curiosità sul “perché siete venuti in Bosnia”? Avrei voluto raccontare loro di questo sentimento-movimento che mi ha portato fin quaggiù, spiegare che si trattava di qualcosa dì viscerale, simile al moto migratorio degli uccelli. Ma lo tenni per me, quasi vergognandomene.

Quella che alcuni chiamano Luka altri la chiamavano ‘’salvezza’’.

As. ci guardò da dietro i suoi occhi neri e profondi, insistette per farci salire a casa sua e ci offrì caffè e sigarette. Gli parlammo del nostro progetto di raccontare quei luoghi tramite una mappatura dei sentieri e dei posti vissuti dai combattenti e dagli sfollati: quelle migliaia di anime in cerca di un luogo da chiamare nuovamente “casa’’. Parlammo per ore ed ore sorseggiando ogni bevanda ed assaggiando le specialità locali preparate da sua madre e sua nonna appositamente per noi. Tra una sigaretta ed un bicchiere di rakja il giorno scivolava dalle mani ed era notte, così As. ci invitò a rimanere a dormire a casa sua e si offrì di farci incontrare una persona il giorno seguente.

L’indomani, a colazione, si presentò un signore di mezza età, vestito a festa con una camicia leopardata stirata e dei pantaloni neri lucidi, immerso in una nuvola di profumo. L’uomo aveva con sé una bottiglia da un litro come borraccia, riempita con della rakja che sorseggiava di tanto in tanto mentre camminavamo. Si era preso un’infatuazione per la nostra amica Susi e continuava ad offrirle da bere, senza molto successo. Questo misterioso personaggio era un sopravvissuto del periodo della guerra e ci avrebbe fatto da guida per un’escursione nei boschi alla ricerca degli scavernamenti e dei luoghi dove si nascondevano i fuggitivi.

As. traduceva pazientemente tutti i racconti dell’uomo e ben presto fummo nel bosco, camminando per ripidi pendii. Dopo circa un paio d’ore ci ritrovammo in uno spiazzetto roccioso molto vicino ad un burrone dove c’erano effettivamente tracce di vissuto: involucri di medicinali, una stufa, vecchi barattoli. Il luogo era molto piccolo e ci spiegarono che in spazi come quelli vivevano anche in 20 ammassati, cercando di scaldarsi durante i duri mesi invernali. Continuavamo a guardarci intorno increduli, pensando come fosse possibile vivere in uno scavernamento così piccolo in così tante persone e quanto dovesse essere tremendo essere così vicini al demilitarizzato paese di Luka, di fatto il portale per la libertà.

As. si aprì del tutto con noi e ci raccontò molto della sua vita, dei suoi studi e del periodo di guerra da lui vissuto quando era piccolo. In particolare, una delle sue storie ci fece drizzare i peli sulle braccia: durante la guerra, la sua casa era stata presa dai guerriglieri e una notte lui ed i suoi fratelli furono costretti dagli occupanti ubriachi a fare un crudele gioco per il loro divertimento. Un gioco che lo portò a spaccarsi la faccia contro un muro. Il fatto che più ci sorprese fu che ce lo raccontò con totale serenità, quasi ridendo. Questa è una delle grandi forze di questo popolo: andare avanti. Quando gli chiesi come facesse a parlarne così tranquillamente, lui inclinò la testa di lato, mi sorrise e guardandomi dritto negli occhi mi disse: “Ehi, te lo sto raccontando!”

Punti di vista

L’esperienza bosniaca ci ha aperto gli occhi su un pezzo di storia che è più o meno vecchio quanto noi. Quasi un parallelismo fra la nostra esistenza in Italia, da bambini fortunati, e quella di un ipotetico ragazzo della nostra età, che già a pochi anni di vita doveva combattere con cose che nemmeno poteva capire e fuggire per questioni religiose o etniche.

Forse a voi che leggete parranno delle banalità, ma toccare i resti della fuga di altri, risalenti ad un tempo non molto lontano, ci ha profondamente impressionato, così come il memoriale di Potocari, a Srebrenica.

Il nostro essere tutti “europei” là non serve a niente. Non servono gli organismi sovranazionali, che si sono voltati dall’altra parte durante massacri e stragi etniche. Quelli che siamo abituati a chiamare “i buoni” sono stati in tutta questa storia degli spettatori al limite della complicità.
E noi stessi siamo arrivati in Bosnia presuntuosamente, pensando che il nostro progetto avrebbe potuto portare ‘’innovazione’’, ‘’opportunità in ambito rurale’’. Ma la verità è che non c’è bisogno di turismo o nuovi colonialismi. Quello di cui c’è bisogno è una vera politica ambientale e di protezione delle etnie locali, della libertà di espressione e di genere.
Ed è vero che tra “noi” e “loro” ci sono 300 km in linea d’aria, ma c’è anche un mondo di lontananza in fatto di modo di pensare, di vivere il proprio territorio, di possibilità.
Quello che ci avvicina invece, è l’amore per quella terra di confine selvaggia e cruda, che è la Bosnia.