Image Alt

The Pill’s Fans Stories: “Stop the time, keep the moment”

By Claudio Martoglio

Un altro sabato sera a casa, da solo. Una condizione che a piccole dosi ho sempre apprezzato, ma che dopo un anno di isolamento forzato più o meno continuativo ormai non può che starmi decisamente stretta.

Cerco un libro, un documentario, una serie che mi faccia sognare avventure magiche e lontane. Che strano pensare a come è cambiata la percezione delle distanze nella mia testa durante quest’ultimo anno. Mi ritrovo a sognare il calcare della Liguria e la neve della Val d’Aosta come se fossero terre così distanti e esotiche, ricoperte da chissà quale aura di mistero. I confini regionali continuano a essere invalicabili e ormai mi ci sono abituato. Con fatica e un pizzico di rabbia, ma mi ci sono abituato. 

Apro armadi e cassapanche a caccia di qualcosa di ignoto. Un oggetto, una rivista, qualcosa che dia una svolta a questa serata così anonima e noiosa. Improvvisamente la vedo, sepolta in un cassetto, sotto una valanga di cianfrusaglie. Il mio occhio cade su una busta che riconosco immediatamente. E’ la lettera che tempo fa avevo scritto e spedito al me stesso del futuro. Saranno passati cinque anni e ricordo perfettamente che avrei voluto aprirla dopo un paio al massimo. La data scritta sul fronte della busta mi toglie ogni dubbio: “Aprire ad Agosto 2019”. Mi ero totalmente dimenticato dell’esistenza di quel pezzo di carta, ma appena preso in mano le immagini di quell’estate mi tornano alla mente. 

Nel 2016 ero fuggito in Valle Stretta, da solo, per una settimana. Non ricordo perché proprio in montagna. All’ epoca, a parte un paio di camminate all’anno, non la frequentavo affatto, eppure ricordo molto bene quanto io fossi eccitato e impaziente di partire. Volevo solo levare l’ancora e assecondare quell’irrazionale voglia di non so bene cosa. Tutto ciò di cui avevo bisogno era quell’evasione che mi avrebbe permesso di trovare il mio spazio e il mio tempo in solitudine tra le crode e l’aria buona. Durante quella settimana incantata ho deciso di scrivere la mia lettera. Il luogo era perfetto, l’ispirazione era arrivata e le opportunità che mi si stavano aprire dinnanzi stimolavano la mia fantasia.

Leggo il mio testo tutto d’un fiato e subito mi rendo conto di quanto la mia vita sia cambiata in soli cinque anni. Di quanto io sia cambiato. Oggi la mia quotidianità gode di qualcosa che nel 2016 non esisteva ancora, ma che proprio durante quella settimana in solitaria stava sbocciando. La passione per la montagna e per l’avventura si stavano facendo strada nelle mie viscere in maniera del tutto inaspettata, andando a costruire le basi di un amore che in breve tempo si sarebbe trasformato in dipendenza. La lettura smuove qualcosa di profondo dentro di me e immediatamente mi viene voglia di scrivere il sequel di quella riflessione nata nel passato. Devo in qualche modo descrivere i sogni, le aspettative e i progetti che mi piacerebbe realizzare nei prossimi tre anni, ma soprattutto voglio cercare di raccontare questa passione incontenibile, nata in quell’Agosto 2016, e cresciuta fino ad oggi. 

Mi metto d’impegno di fronte al foglio, tazza di tisana alla mano, pronto a descrivere per filo e per segno cosa la montagna significhi per me. Rimango subito spiazzato. Non trovo nessuna parola, nessuna idea, nessuno spunto. Mi sembra davvero assurdo. Sono anni che impiego ogni singolo momento libero a caccia di roccia, neve e ghiaccio, eppure non riesco in nessun modo a spiegare quali siano le ragioni di quest’ossessione. Mi rendo conto di star cercando di spiegare qualcosa di totalmente irrazionale. Nella mia testa è tutto così semplice e limpido, ma quando i miei pensieri si scontrano con lo scoglio della carta e della penna, tutto diventa così complesso e privo di senso. Perché vado in montagna? Che cosa mi spinge a svegliarmi all’alba, a faticare come un dannato, a spendere un capitale in attrezzature varie e talvolta a rischiare la vita? La voglia di conquista? Il divertimento? Il desiderio di avventura? L’ amicizia con i soci di cordata? Il bisogno di superare i miei limiti e le mie paure? Forse la ricerca di libertà? Proprio non ne ho idea. Tutto ciò che scrivo mi sembra di una banalità disarmante. Sarebbe facile ricopiare una frase di Motti o di Bonatti e evitare di prendermi la responsabilità di spiegare ciò che rappresenta tutto questo per me. Ma non posso farlo. Ormai è una questione di principio. Devo sforzarmi di trovare le parole.

Inizio così a sfogliare le immagini che ho scattato nel corso degli anni. Uno, due, tre hard disk pieni di fotografie. Quante gite, quanti ricordi e che posti superlativi: la prima volta in falesia con Marghe, la prima via lunga con Simo e Sandro, il primo ghiacciaio con Manu, la prima pellata con Fil, i primi gradi impegnativi con il Druido

Tutte queste immagini scorrono nella mia mente mentre il monitor me le propone. È così che trovo la risposta che stavo cercando. Tanto scontata quanto complessa. È tutta una questione di singoli e brevissimi istanti, rapidi e fuggitivi, che passano e scompaiono immediatamente. Alcuni di questi momenti, filtrati dai miei occhi, brillano di una bellezza inenarrabile. Le avventure vissute in questi anni mi hanno permesso di vivere, osservare e fotografare ambienti e attimi mozzafiato. Grazie a questa passione ho potuto vedere con i miei occhi luoghi incredibili e grazie alla mia macchina fotografica immortalare momenti irripetibili. Quadri naturali animati dalla presenza del nostro elemento umano. Mari di nuvole sotto i nostri piedi mentre all’alba camminiamo su una coltre ghiacciata, canalini innevati e solcati dai nostri sci, pareti di granito verticali e lucenti accarezzate dalle nostre mani, cascate che il freddo ha immobilizzato per renderle accessibili alle nostre picche. Non siamo altro che cacciatori, in perenne ricerca di luoghi esteticamente strepitosi. Bambini curiosi, ancora in grado di provare gioia e stupore di fronte alla bellezza, qualche istante prima di premere il pulsante di scatto, rendendo eterni alcuni di quegli istanti insieme alle emozioni che ne scaturiscono. Forse è proprio la voglia di godere di questi momenti che mi spinge tra le nostre amate vette. La bellezza di questi luoghi e il piacere che provo nel fotografarli, divertendomi a fermare il tempo. Una parentesi di tempo che mi ha fatto stare bene e che vorrei non passasse mai. 

Questa visione mi piace. Mi fa sorridere l’idea di rispondere alla domanda: “Perché vai in montagna?” con uno sproloquio esistenziale a metà tra l’attimo fuggente e l’Estetismo di Oscar Wilde. Ma ancor di più sono contento di essere finalmente riuscito a trovare le parole che stavo cercando. Le mie parole. 

Qualche settimana più tardi, mi ritrovo a osservare il Rio Giaset, completamente congelato e in tutto il suo splendore. Ho sempre trovato un po’ magica l’atmosfera che si crea attorno a una cascata in questa stagione, anche se non mi sono mai soffermato a comprenderne il motivo. Nuovamente non riesco a trovare le parole per descrivere le sensazioni che mi provoca quell’insignificante eppure bellissimo blocco di ghiaccio dall’aria fiabesca. Sicuramente quello che sto viven- do è uno degli splendidi istanti che vado cercando. Il silenzio della mattina presto, quell’azzurro così perfetto, il sole che albeggia. Eppure c’è qualcosa di più. Qualche piccolo e sottile aspetto che mi sfugge.

Poi la rivelazione. Quella cascata non rappresenta altro se non un’altra metafora. Un altro meccanismo in grado di fermare il tempo. L’inverno in qualche modo è in grado di bloccare il flusso continuo dell’acqua, immobilizzandolo per un’intera stagione, proprio come un gioco di specchi e di luce, grazie a un paio di lenti e a un sensore, può fermare un istante per sempre. Ancora una volta mi rendo conto di restare a bocca aperta di fronte all’idea di “congelare” per più tempo del dovuto qualcosa di così bello. Finalmente si manifesta in maniera così evidente l’ultima tessera di questo mio puzzle, permettendomi di mettere in ordine la confusione nella mia testa.

Osservando quella cascata realizzo come la volontà di bloccare questi istanti vada a smuovere le corde della mia più grande paura, quella del tempo che passa rapido e inesorabile. Magari per questo motivo adoro così tanto fermare il tempo nelle mie immagini. Forse per questa ragione un corso d’acqua immobile mi trasmette così tanta serenità. Oppure chi può saperlo, tutte queste riflessioni non hanno nessuna attinenza con la realtà e sono solo favole e frottole che mi piace raccontarmi. Forse l’unica ragione per cui andiamo in montagna è che ci piace infinitamente e che semplicemente non potremmo farne a meno. Senza tutto questo vivremmo una vita profondamente infelice. In un caso nell’altro, ritrovarsi in un ambiente selvaggio e silenzioso a riflettere sulla propria vita, è un’esperienza magnifica che spesso trascuriamo. Spero che chi sta leggendo possa sperimentarne la bellezza al più presto. 

Vivere la montagna significa anche questo, perdersi nei meandri della nostra mente, stimolata dai luoghi incredibili nei quali andiamo a cacciarci.

Keep Reading

 

Share this Feature