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Trail running a cavallo tra Italia e Slovenia: la Cavalcata Carsica

Città marittima e di vie segrete come carruggi, città imperiale in cui si sente forte la dominazione asburgica. Città dai numerosi confini, non solo geografici ma anche culturali e storici, crocevia di mondi latini, tedeschi e slavi, culla di grandi conversatori e conciliaboli intellettuali, di gente come Umberto Saba, Italo Svevo e James Joyce. Un carattere multiculturale ricco di componenti e contrasti, derivati dalla sua posizione geografica, dalla sua storia e dalla sua morfologia, sospesa tra il mare Adriatico e l’altopiano carsico. Espressione unica dell’arte e della cultura mitteleuropea tra Balcani e Mediterraneo. Sto parlando di Trieste, una delle più belle e affascinanti città italiane. 

Da qualche anno, ormai, il mio cuore vive qui. Ma per raccontare questa storia, la storia del Sentiero 3, sono dovuto tornare indietro al 1987.

Ho sempre pensato che Trieste (ed i triestini) abbiano un rapporto particolare con il mondo della corsa. Fortemente radicato e comunitario. Volutamente territoriale ed emarginato. Qualcosa che ha molto, moltissimo, in comune con la sua storia di rocciatori. Trieste è patria di alpinisti come forse nessun’altra città marinara. Padri carismatici e innovatori geniali come Julius Kugy ed Emilio Comici, ampiamente indagati e raccontati, ma anche Berto Pacifico, Ezio Rocco e i tanti personaggi che negli anni hanno portato in alto il nome della Trenta: da Guglielmo Del Vecchio a Bruno Crepaz, da Tiziana Weiss ad Enzo Cozzolino, a cui è intitolata una delle due sezioni locali del Club Alpino Italiano. Proprio la tradizione e l’attività delle due sedi CAI hanno fatto sì che oggi l’offerta del territorio sia davvero sorprendente e godibile. Cosa quanto meno insolita per un porto di mare. Ancor più se si pensa che la Società Alpina delle Giulie ha un proprio gruppo di corsa in montagna, il CAI CIM, nato nel 1995 dall’unione di sportivi provenienti dalle più svariate realtà alpinistiche con semplici amanti delle vette dai trascorsi podistici. Un team di appassionati che dal Nanos o dalla Val Rosandra ha iniziato a portare un pezzo di Trieste tra le Alpi e le Dolomiti, promosso questo sport tra le piazze e intrapreso, già dalla fine degli anni ’90, la strada della corsa esplorativa, con distanze sempre maggiori, in parziale o totale autosufficienza, abbattendone i tempi di percorrenza escursionistici. 

È su un terreno fertile come questo che nasce la storia della Cavalcata Carsica, una sottile linea rossa che scorre per oltre 50km a cavallo tra Italia e Slovenia. Con questo nome già per sé intrigante, che dà il senso di qualcosa di epico e definitivo. Qualcosa che da troppo tempo desideravo raccontare. Esattamente da quel lontano 2015, quando la corsi per la prima volta. Sì, perché sul Sentiero 3 si è scritta, e ancora si scrive, una delle più belle pagine del trail running italiano. Una storia che dura da 35 anni e che si rinnova ogni prima domenica di dicembre. 

Per capirne le origini, bisogna imbattersi nei racconti di Claudio Sterpin, classe 1939, monumento vivente dell’endurance, antesignano dell’ultramaratona per come la conosciamo oggi.  Un uomo che ha iniziato a correre con la piuma dei bersaglieri sul cappello, nei primi anni ’60, e dato l’addio all’attività agonistica alla veneranda età di 81 anni, dopo aver segnato la storia di questo sport a livello internazionale.

“Sul finire dell’estate 1987, un articolo del quotidiano locale enfatizzava l’impresa di alcuni soci CAI che avevano percorso in circa 12 ore l’intero tracciato dell’Alta Via del Carso Triestino, il sentiero 3. Rodolfo Geic, supportato da Virgilio Zecchini, aveva espresso l’intenzione di “fare meglio”, coinvolgendo nell’impresa me ed Armando Germani. Il tentativo si sarebbe svolto la prima domenica di dicembre. I cugini Fonda, nipoti di Zio Rudy, a bordo di un pulmino, avevano il compito di assisterci in quei medesimi posti che oggi sono rimasti tradizionalmente tali: Basovizza, Fernetti, Monrupino e Goriansko. Qualche settimana prima della data fatidica si erano aggregati al gruppo sia il più anziano dei Fonda, Diego, maratoneta da 2h45’, che due Maurizio: Potossi (montanaro mezzofondista del S.Giacomo) e Vangi (fresco del suo record, mai battuto, di 2h21’18” nella Maratona del Carso). Già alla partenza però, mantenuta fedelmente negli anni alle 7.30, lo stesso Vangi e Germani avevano manifestato l’intenzione di abbandonarci a Gropada, da dove, prolungando il riscaldamento, avrebbero raggiunto la Foiba di Basovizza per partecipare alla prima prova del “Trittico” delle campestri. In conclusione, dopo aver perso Diego Fonda per crampi pochi chilometri prima di Goriansko, arrivammo a Jamiano, tutti assieme, come d’accordo, alcuni minuti prima delle previste e programmate 6 ore.” 

Da allora, con lo stesso spirito con cui Rodolfo e Virgilio avevano ideato la Cavalcata, la tradizione ha continuato a ripetersi fino ai giorni nostri. A vivere ed evolvere sulla spinta di una sana e cavalleresca rivalità. Rivalità che dapprima porta ognuno di noi a ricercare i limiti personali e, subito dopo, a misurarli con quelli degli altri, con l’innato agonismo che rimane alla base di tutte le imprese umane. Ma a prescindere da questo spirito competitivo, la Cavalcata continua a rappresentare, oggi, l’espressione più sana e genuina di questo sport. Una corsa che è riuscita ad assumere lo status di mito e leggenda per questa aura che ne preserva l’indiscusso fascino di un tempo. Qualcuno ci aveva provato, a reclamizzare l’evento, ma l’iniziativa era stata stroncata sul nascere. Del resto, come piace ricordare a Stefano: “prima regola della Cavalcata: non parlate mai della Cavalcata.” 

Niente sponsor, niente organizzazione, niente pettorali, niente assistenza, nessuna quota di partecipazione. Solo un sentiero con i segnavia biancorossi, qualche volta evidenti e altre no, a dipanare un filo che scorre in un ginepraio di tracce, stradine, doline, radure, boschi e pietraie lungo la linea di confine tra Italia e Slovenia, in un continuo saliscendi ondulato da modesti rilievi. Non cercatela su internet o nei calendari delle gare, la conferma non la troverete da nessuna parte, semplicemente si “sa che c’è”. Basta presentarsi alle 7 del mattino al valico confinario di Pesek la prima domenica di dicembre. E non sarete soli. Per le iscrizioni cercate un vecchio furgone Volkswagen e due volenterosi cronometristi, bardati per affrontare il gelo mattutino, che a matita prendono nota dei partecipanti. Il briefing dall’altoparlante, con vaghe indicazioni in triestino stretto, è qualcosa che rimarrà nella vostra memoria: “muli, el sentiero xe segnado, ma atenti ai bivi. Normalmente se va a sinistra, ma qualche volta anche a destra; oggi poi xe sol e xe facile, la corsa va verso ovest, quindi el sol lo gavé in schiena o a sinistra. Se ve lo trové in fronte gavé sbagliado e dové tornar indrio.”

Ed è da qui che inizia veramente la storia che vi voglio raccontare. Una storia fatta di fatica, gioia, solitudine e natura selvaggia. Di nomi come Cocusso, Orsario, Lanaro, Ermada, fino a qualche tempo fa a me sconosciuti. Nomi che oggi sono entrati nella mia testa e che fanno parte di un viaggio che non dimenticherò più: l’altopiano carsico tutto d’un fiato. Una scenografia che alterna boschi di macchia mediterranea a infiniti panorami verso il Golfo di Trieste. Sul lato opposto, l’ignoto, la Valle di Vipava e le Alpi Dinariche. Un ambiente selvaggio, a tratti aspro, eppure così vicino alla civiltà. Per chilometri e chilometri non si incontra niente e nessuno, solo querce, lecci e pini marittimi, brevi tratti di pascolo, steppa carsica mossa dal vento, doline, pietraie riarse dalla bora, campi solcati e vecchi cartelli confinari. Pochi i passaggi nei piccoli centri abitati, Grozzana, Monrupino, Medeazza, o in attraversamento alle provinciali che portano ai valichi di Basovizza, Fernetti, San Pelagio. Sentieri dal fondo duro e tecnico, dove ogni passo nasconde un’insidia, dove le suole delle scarpe, ad un certo punto, inizieranno a chiedere pietà. 

Fin da subito la Cavalcata inizierà a farti conoscere il suo carattere, spesso nervoso. Tra il Bosco dei Pini e quello di Igouza potrai interpretare il percorso in maniera veloce, andare a tutta, far girare le gambe. Ma dovrai assaggiare con cura il terreno, sfoderare abilità assoluta e saggezza di piede. Concentrandoti per non sbagliare incrocio o tirare dritto alla minima distrazione. Nelle discese, basterà lasciarti andare e affidarti al tuo santo preferito, o all’intelligenza dei tuoi riflessi, all’acutezza del tuo sguardo. Se ti è andata bene arriverai all’altezza di Trebiciano e del suo abisso, che se ne scende per 329 metri nelle viscere della terra. Poi il ponte sulla ferrovia, il sottopasso autostradale, ed il valico di Fernetti, dove camionisti bulgari e moldavi, provenienti dalla grande infrastruttura intermodale, si mischieranno al modesto traffico di transfrontalieri. Qui potrai darti un tono, gonfiare il torace e assumere l’aria di quello che non ha ancora fatto la benché minima fatica. Ma è solo apparenza. A Col di Monrupino approfitta di una tazza di tè caldo generosamente offerta da qualche volontario, giovati di scambiare qualche chiacchiera, quando ancora riuscirai a bluffare. Perché da qui in poi, c’è un pezzo del 3 che è fatto di immensa solitudine. Fino a San Pelagio sarai solo, immerso in una pista di infinite serpentine, puntellata di rocce che affiorano da ogni dove. Qui non dovrai correre, dovrai danzare saltando da un punto all’altro per trovare la porzione di terreno migliore. Dovrai solo calibrare il passo, seguire il flusso e immergerti nelle sensazioni di questo sentiero che ti si stringe addosso come un abbraccio. E quando, infine, arriverai a quei cento metri di provinciale che dovrai attraversare, ti sembrerà di risvegliarti da un lungo sogno, ti chiederai cosa è accaduto in tutto questo tempo, e ti renderai conto di aver solo inseguito pensieri. 

Uscito dai boschi, odoroso di erba e fango, su quella strada per San Pelagio dove di solito aspettano amici e familiari, avrai lasciato 37km alle spalle e potrai concederti una breve di pausa. Se sarai fortunato, troverai qualche bottiglia di Coca Cola lasciata lì per i più disperati. Potrai darti anche un tono, ma non ti crederà più nessuno. Basterà guardarti in faccia. Il 3 sembrerà concederti un po’ di tregua ma è una mera illusione fatta a regola d’arte. La velocità che credi di ritrovare è destinata a svanire perché è proprio qui che si paga il conto di tutto quel danzare. La strada spiana in larghi sterrati, ma il monte Ermada è lì di fronte, lo puoi fissare negli occhi prima che venga inghiottito dai boschi. Sai già che quello sarà il tuo ultimo supplizio. Ora è tutto un zigzagare tra gli alberi, giocare alle montagne russe con le doline. Passerai sui cumuli rocciosi del Sambuco, tra i resti delle trincee. Una pala arrugginita a segnare il culmine. Cammina, che non vale rischiare. Sei al 44o chilometro e ti converrà toglierti quel sorriso dalla faccia. Che ne devi sputare ancora un bel po’ di sangue. Sai cosa ti aspetta appena sarai uscito dal bosco e assapori già il paesaggio che ti accoglie lassù, al passaggio sull’oleodotto. Vorresti correrlo ma non è possibile. E quando scavalli da quel pilone dell’alta tensione, puoi vedere dall’alto il paese di Jamiano. Ma ancora non ci puoi arrivare, non da qui, perché l’arrivo è laggiù.

In basso ti aspettano le case di Medeazza. Alla tua sinistra i deboli raggi di sole risplendono sul litorale di Grado e la Laguna di Marano, mentre la bruma si svolge sulla pianura friulana. Lì in fondo l’emiciclo delle Carniche e delle Giulie con la prima neve. Al centro, di fronte a te, se aguzzi la vista e sai riconoscerlo il Matajur. Se ti giri, invece, puoi visualizzare da dove provieni, ed è sempre, incredibilmente, sorprendente. A Medeazza ormai è fatta, anche se i piedi, su questo terreno, soffrono. Dietro le ultime fronde si nasconde Jamiano, piccola frazione del comune sparso di Doberdò del Lago. La carrareccia muore sull’asfalto, sulla via intitolata al poeta sloveno Simon Gregorčič. É qui che i due cronometristi annoteranno il nome. Sempre che tu sia arrivato prima del calar del sole. La tua lunga corsa terminerà senza nessun clamore, senza striscioni, docce o premiazioni. Nemmeno un mezzo per rientrare alla partenza, per questo dovevi organizzarti prima. Se ti va bene, un pentolone di tè cui provvede un generoso volontario, o un paio di Lasko lasciate a ghiacciare su un muretto. 

La Cavalcata Carsica si chiude ogni volta nella stessa maniera, lasciandoti dentro la sensazione di aver concluso l’ennesimo viaggio, contro il Carso, contro te stesso. Tra qualche giorno, in qualche oscuro lato dell’internet, ci saranno pure delle classifiche e forse, il Piccolo, avrà pubblicato il solito trafiletto. Niente di più, niente di meno. Semplicemente stupendo. La Cavalcata Carsica fa parte di me, come fa parte di me questo angolo di Italia al centro dell’Europa.