Text Yuri Basilicò
Photos Sara Furlanetto
Text Yuri Basilicò
Photos Sara Furlanetto
Dal Friuli-Venezia Giulia alle Marche per scoprire il trekking più lungo del mondo: il racconto dei primi 3.548 km per montagne della spedizione Va’ Sentiero.
Avevo sentito parlare del GR20, un trekking di 15 giorni che percorre la dorsale montuosa della Corsica. Era un periodo denso di dubbi e preoccupazioni, quel sentiero mi sembrò sufficientemente impegnativo per saziare la mia fame di avventura e rapirmi dai pensieri. A fine settembre 2016 sbarcavo a Bastia.
Dopo qualche giorno di cammino, mentre attraversavo un vasto altopiano poco a nord del Monte Cinto, fui sorpreso da una fitta nebbia improvvisa e mi persi completamente. Vagando a casaccio per cercare la traccia, mi imbattei in un un trio di ragazzi svedesi. Stavano percorrendo il GR in direzione opposta e si erano persi, come me. Ritrovammo il sentiero. Prima di lasciarci mangiammo un boccone assieme e mi chiesero: “tu che sei italiano, lo conosci il Sentiero Italia?”. Era la prima volta che lo sentivo nominare.
Qualche mese dopo, in una fredda serata di pianura, mi tornò alla mente l’episodio e andai a cercare “Sentiero Italia” su Google. Trovai poche informazioni ma era comunque abbastanza: un sentiero di 7.000 km lungo tutte le montagne italiane, da anni ormai dimenticato.
Mi ci volle poco per iniziare a fantasticare di una spedizione alla scoperta del grande sentiero misterioso. Ancora non lo sapevo, ma quella sera si apriva un nuovo capitolo della mia vita.
15 maggio 2019. Gemona del Friuli. 232 km.
Oggi è il mio compleanno. Fuori sta facendo buio e ha ripreso a piovere.
Sono al Pronto Soccorso di Gemona, un piccolo paesino ai piedi delle Prealpi Giulie che conoscevo solo di nome per il terremoto del ‘76. Oggi pomeriggio, mentre scendevo tra i pascoli verso il borgo di Prossenicco, una zecca ha pensato di farmi festa e mi si è infilata nel polpaccio: sono riuscito a estrarla intera, ma ho una grossa infezione e abbiamo pensato fosse il caso di farsi vedere. Abbiamo: io e i ragazzi.
Siamo partiti due settimane fa da Muggia, sul Golfo di Trieste, il punto di partenza del Sentiero Italia. Siamo in cinque: una fotografa, un videomaker, un responsabile logistico, un cambusiere ed io, che guido il gruppo. Va’ Sentiero: si chiama così, la spedizione.
Ci siamo messi in cammino il Primo Maggio, verso nord, lungo il confine con la Slovenia. I primi giorni abbiamo attraversato i boschi del Carso, purtroppo il sole ci ha abbandonati quasi subito ed è tornata la pioggia.
Finalmente, quasi con un senso di liberazione, abbiamo iniziato a prendere quota tra le Valli del Natisone. Fa freddo e ha preso a nevicare copiosamente sopra i 1.500 m: esattamente dove siamo diretti. Insieme al maltempo sono spuntate le prime tendiniti, i primi acciacchi di rodaggio: non siamo ancora molto allenati. E sciami di zecche. Certo è ancora presto perché il morale declini, ma qualche malumore c’è e ogni tanto affiora.
18 luglio. Valtellina, alta Lombardia. 1.272 km.
Finalmente è arrivata l’estate. Dopo i primi mesi difficili, tra i metri di neve marcia in quota e le foreste distrutte nel Triveneto, le cose stanno procedendo sul binario giusto.
Nelle ultime settimane le montagne sembrano aver cambiato all’improvviso proporzioni: l’Adamello, il Gran Zebrù, L’Ortles. Le Dolomiti mi sembrano montagne così minute in confronto.
Dopo aver aggirato il Bernina ci siamo diretti verso il Disgrazia. Abbiamo fatto tappa ai piedi dell’immensa parete orientale, al Rifugio Ventina. Il primo gestore del rifugio, Oreste Lenatti, nel 1956 accompagnò per un pezzo Bonatti durante la mitica traversata invernale delle Alpi.
Dopo una gran mangiata, mi sono sdraiato sulla riva del torrente che scorre rumoroso dalla Vedretta; la scena ricalcava le immagini che creavo nella mia testa quando da piccolo leggevo Il richiamo della foresta.
Due giorni fa abbiamo attaccato il Sentiero Roma, il percorso semi-alpinistico che dalla Valmalenco si dirige verso l’estremità nord del Lago di Como sorvolando tutta la Val Masino. Probabilmente il tratto più difficile di tutto il Sentiero Italia, con ben 8 passi d’alta quota in rapida successione.
Ieri, scendendo dalla Bocchetta Roma, abbiamo quasi rischiato di perdere Sara, la nostra fotografa. Una pietra che si è staccata dalla parete e le è rimbalzata verso la faccia mentre si stava calando da una corda fissa, sospesa su uno salto di almeno 20 metri. Ha schivata il sasso di riflesso, ci siamo spaventati parecchio.
Alla base della parete c’era un nevaio in pessime condizioni e non avendo con noi i ramponi ci abbiamo messo più di due ore per percorrere il chilometro che ci separava dal Bivacco Kima. Fortuna che nel bivacco abbiamo trovato delle carte da gioco per smaltire la tensione.
“Una pietra che si è staccata dalla parete e le è rimbalzata verso la faccia mentre si stava calando da una corda fissa, sospesa su uno salto di almeno 20 metri. Ha schivata il sasso di riflesso, ci siamo spaventati parecchio.”
1 settembre. Courmayeur, Valle d’Aosta. 2.044 km.
Ieri mattina abbiamo svalicato la fessura del Col del Malatrà e ci siamo trovati di fronte la muraglia delle Grandes Jorasses. Siamo saliti sulla Testa Bernarda, un balcone perfetto su tutto il massiccio del Monte Bianco, proprio davanti alla piramide di Punta Walker.
Con noi c’era un amico e aveva con sé un binocolo con delle lenti eccezionali; abbiamo passato un sacco di tempo a studiare tutti i picchi, le creste, i ghiacciai, le guglie. Ovunque guardassi, ritrovavo le vie aperte dai più grandi: Cassin, Whymper, Gervasutti. E Bonatti, ovviamente.
Mentre cercavo il Pilone Centrale del Freney, quello della tragedia del ‘61, ho notato delle piccole macchie scure nel campo visivo del binocolo. All’inizio pensavo fosse la mia retina, per l’abbagliante riflesso dei ghiacciai circostanti; poi mi sono reso conto che erano invece delle ali in movimento e che si stavano avvicinando.
Ho chiamato a gran voce gli altri e, senza nemmeno il tempo di rendercene conto, avevamo ben dodici rapaci che volteggiavano in cerchio sopra le nostre teste. Erano grifoni, assolutamente inusuali per la zona: il corpo corto e tozzo, il collo lungo e sottile, da avvoltoio. Sembravano non muovere quasi mai le enormi ali tese, solo la punta per aggiustare appena la traiettoria, come degli equilibristi su un filo invisibile.
5 ottobre 2019. Rifugio Mongioie, basso Piemonte. 2.595 km.
Ieri mi sono staccato dagli altri e ho fatto una lunga deviazione, avevo voglia di sgambare un po’ da solo. Mi sono perso diverse volte, con leggerezza, mi mancava farlo. Guardando la cartina ho scoperto di essere ai piedi di un tale Monte Jurin e, chiamandomi Yuri, non ho potuto che salire in vetta. Si vedeva tutto l’arco alpino occidentale. Non c’è da stupirsi che i Romani ritenessero il Monviso il più alto delle Alpi: è in assoluto la montagna che più svetta sulle altre.
Più tardi, mentre mi avvicinavo al Rifugio Garelli, ho sentito i raggi del sole sulla nuca e mi sono accorto che il sole stava tramontando alle mie spalle. All’improvviso ho realizzato che la spedizione aveva cambiato direzione: dopo aver camminato verso nord dal Golfo di Trieste a Tarvisio, poi verso ovest fino al Monte Bianco, quindi verso sud fino alle Alpi Marittime, ora avevamo virato a est. L’ultima direzione che mancava dalla collezione Va’ Sentiero.
Stamattina siamo partiti dal Garelli prima che sorgesse il sole, un vento freddo spazzava l’aria e rendeva tutto nitidissimo. Per lo stretto Canale dei Torinesi abbiamo risalito la parete nord del Marguareis, il più alto dei Monti Liguri. Dalla vetta, per la prima volta dalla partenza e dopo 5 mesi di montagne, abbiamo rivisto il mare. Ho provato una strana sensazione, come tornare a casa. Non so perché.
11 novembre 2019. Eremo dei Toschi, Toscana. 3.240 km.
La favola dell’autunno bucolico è finita presto e abbiamo dovuto fare i conti con temperature in picchiata e forti venti da nord: nella sola ultima settimana ci sono state due allerte meteo. I nostri volti iniziano a tradire la stanchezza.
Qualche giorno fa, sulla cresta verso il Lago Scaffaiolo ci siamo trovati in una bufera di neve con raffiche di tramontana che frustavano tanto forte da spostarci di peso. A distanza di un metro non si vedeva nulla e abbiamo dovuto metterci gli occhiali da sole per riuscire a tenere gli occhi aperti. Ho avuto un po’ di paura, non avevo mai sperimentato il whiteout (nebbia di neve e vento gelido fortissimo) e non mi sarei mai aspettato di farlo in Appennino, è stata la situazione più estrema che abbiamo affrontato finora.
Con noi c’era una giovane ragazza che si era unita al gruppo da pochi giorni; non avevo idea di che esperienza avesse e ho temuto perdesse la testa, in casi del genere non è difficile. Invece è rimasta sempre sul pezzo, concentrata, eseguendo con lucidità quello che le dicevamo; la cosa mi ha colpito. Alla sera mi sembrava di conoscerla da una vita.
1 dicembre 2019. Fine primo tempo.
Visso è un piccolo borgo incuneato ai piedi dei Sibillini. Oltre che essere a metà del Sentiero Italia (3.548 km su circa 7.000), è stata devastato dal terremoto del 2016: quasi tutti gli edifici sono inagibili, specialmente nel centro storico. Per questo abbiamo scelto di interrompere a Visso la prima parte della spedizione: ci sembrava bello arrivare qui e da qui ripartire con la primavera, simbolicamente.
Il nostro arrivo, a modo suo, è stato un evento. L’ultimo giorno è magicamente tornato il sole, come a premiarci: un cielo pulito, senza compromessi, come alla partenza.
C’erano tantissime persone venute a camminare con noi in quella tappa, una gigantesca carovana. Una ragazza mi ha chiesto cosa provassi all’idea di essere quasi arrivato a quel primo obiettivo dopo aver camminato per 7 mesi; mi sono accorto che non avevo affatto avuto il tempo o l’accortezza di prepararmi a quel momento.
Poi siamo giunti tra le prime case semidistrutte, puntellate, sembrava di essere in un paese bombardato. Durante la spedizione ne abbiamo visti parecchi di vecchi borghi crollati o in preda all’abbandono ma qui era diverso: le case sembravano abitate fino a un attimo prima. Sulla parete di una cameretta si intravedeva un poster di Bob Marley.
Abbiamo iniziato a sentire la banda del paese che attaccava a suonare in nostro onore, la gente in lontananza che vociava allegra; mi è sembrato surreale, ma è stato solo un attimo.
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