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Viaggio di sola andata per la Angeles Crest

By Francesco “Paco” Gentilucci

Il fatto che molte persone si chiedano stupite se sei venuto apposta dall’Italia per correre questa gara, tuttora vissuta dalla gente del posto come una corsa di paese pur essendo una delle più prestigiose al mondo – la quinta nella storia nonché quella col record più antico – ti fa capire di essere nel posto giusto. Il pacco gara è rappresentato dal tuo pettorale e una maglia in cotone Gildan, di pessima qualità. La grafica è la stessa che c’è da trentadue anni e una delle due signore dello staff ti consiglia di prendere la taglia Large, che tanto poi si restringe in lavatrice, e ci cresci dentro.
L’organizzazione non mette a disposizione una navetta per tornare alla partenza, niente docce all’arrivo né chip né cronometristi. Puoi pure essere Kilian Jornet, ma ti devi trovare un passaggio in autostop per tornare alla partenza dopo la cerimonia di premiazione. Se ti ritiri, avresti dovuto prenotare prima la navetta al costo di 30$; se non l’hai prenotata cazzi tuoi. L’altro aspetto affascinante di Angeles Crest è la distinzione tra “solo” runner e corridori con la crew. Se corri come “solo” non può aiutarti nessuno se non i volontari nelle aid station, non hai diritto a un pacer né a qualcuno che ti passa dell’acqua, anche se stai morendo di sete ai bordi del percorso. Il primo atleta “solo” viene infatti premiato con un premio speciale e applaudito di più.

Svegliandoti alle tre e mezzo del mattino – ma tanto non stavi dormendo – noti che sì, sei un filino agitato.
Alla partenza hai il batticuore. Sei sotto lo stesso striscione in cui da trentadue anni le persone si domandano se saranno in grado di arrivare in fondo a prescindere da quanto veloci sono: tutte queste persone prima di te, e come te, si sono domandate se erano pronte. Sotto quello stesso striscione che sarà smontato dopo la partenza e rimontato all’arrivo, 160 chilometri più avanti. La pelle abbronzata degli allenamenti sotto al sole è sensibile al vento soffice di agosto e fa venire la pelle d’oca. Tra qualche ora, quando il sole sarà alto in cielo, l’inferno scenderà sulla corsa: infuocherà l’asfalto, renderà l’aria soffocante e l’acqua nelle borracce bollente. Costringerà molte persone a cercare motivazioni ben più profonde di una fibbia di ferro per arrivare in fondo; sfinirà un terzo dei partecipanti al punto di volersi ritirare. In pieno agosto, sulle montagne della città chiamata Los Angeles, ci saranno demoni e corridori con bandane riempite di ghiaccio strette attorno al collo, che fanno smorfie di dolore.
Sono le cinque del mattino e sei presente sul momento. Ti senti un privilegiato a startene ai bordi dell’inferno. E non come uno che guida un Ferrari in mezzo alle Punto, ti senti un privilegiato per il fatto di essere parte nella storia, di qualcosa di più grande di te, come singolo. Mentre il solito ranger un po’ fuori di testa, lo stesso che alle premiazioni sbraita il nome di uno a uno gli arrivati da trentadue anni e che al mattino ha stretto la mano a tutti i 300 partenti, urla quella che è una specie di preghiera. Dice “che possa essere sempre presente e accompagnarti lungo tutto il percorso, passo dopo passo, attraverso il giorno e la notte, continuando a spingerti in avanti.”  Non nomina nessun dio e, per quanto ti riguarda, sta parlando della tua motivazione.
Alcune frontali sono accese, qualcuno non la usa per risparmiare peso, dovrà accodarsi a qualche altro corridore fino all’alba. Gli sguardi di tutti sono fissi in avanti, nel buio: non fa freddo ma hai i brividi e vuoi partire.
Five urla qualcuno. Four, rispondono altri, Three dice anche il tizio che ti è vicino, Two senti il rumore delle persone da dietro, One urli anche tu.