Hura (libera), il nuovo corto firmato La Sportiva sulla climber egiziana Wafaa Amer, è uscito da pochi giorni. Matteo Pavana ci regala il dietro alle quinte di questa storia rara, offrendoci un ulteriore spunto interessante.
Tutte le storie vanno trattate con cura. Alcune però più di altre.
Avete presente il mare? Raccontare una storia equivale ad immergersi.
Le onde sono una superficie mossa, riflettono in maniera distorta, ingannano. Alle volte ci si ferma proprio lì, in superficie, un pò perché fa comodo, un pò perché non si è in grado o semplicemente non si vuole andare più a fondo. Scavare, immergersi appunto, porta lontani dalla luce: è difficile vedere dove si sta andando quanto da dove si è venuti. Raccontare la storia di qualcuno significa proprio questo: brancolare nel suo buio e cercare una direzione verso un risvolto positivo e, se possibile, condiviso. Occorre portare maggiore attenzione verso alcune storie proprio perché sono delicate.
Sono quelle che ti entrano sotto pelle, ti muovono le viscere.
Sono le storie che ti insegnano realmente qualcosa.
Hura non è una storia di arrampicata.
D’altronde, come sarebbe potuto esserlo?
Wafaa è un’arrampicatrice popolare in Italia. La storia della sua vita, per chi non la conoscesse, è quella di una giovane donna musulmana immigrata in Italia assieme alla sua famiglia che ha dovuto lottare duramente per la sua libertà. Non una lotta qualsiasi, ma una guerra interiore contro le sue radici, la sua cultura e, sfortunatamente, contro la sua stessa famiglia.
Avete mai constatato che, come esseri umani, ci interessiamo generalmente a vicende che trattano situazioni complicate? A me non incuriosisce il fatto in sé, ma il perché. Esiste un’attrazione verso il binomio dolore+riscatto che è più forte di noi. Abbiamo spontaneamente l’inclinazione ad immedesimarci e provare empatia, come si trattasse di una sorta di terapia catartica. Forse è proprio questa la spinta che tanto mi incuriosisce: è la speranza.
La speranza mantiene vivi, sempre. A chi non è capitato di aggrapparsi a qualcosa di grande, magari per sentirsi brillare nell’esistenza? È un pò come credere che, prima o poi, nascosta tra le prese minuscole di una sezione strapiombante, ci sarà la zappa che ci farà riprendere fiato e che ci permetterà di arrivare in catena.
Hura è anche una storia di arrampicata.
Eccezione fatta per le prestazioni che hanno spostato inequivocabilmente il concetto di limite umano (la salita di Honnold slegato su Freerider o quella di Silence per Ondra sono due esempi di riferimento), il sugo delle vicende arrampicatorie, stringi stringi, è sempre la stesso: l’allenamento sempre più duro, la sfida più grande, le prese più piccole. È limitante, sia per chi vive l’arrampicata, sia per chi la comunica, sia per chi, di conseguenza, la subisce. Io ho vissuto quel tipo di arrampicata, ma lascia il tempo che trova. L’arrampicata (e di conseguenza la montagna) è molto più di quello che siamo abituati a masticare e digerire. Hura non è la storia del raggiungimento del grado o della rottura della barriera del limite, ma è la storia della difficoltà e della rivincita o, per meglio dire, della libera consapevolezza e della consapevole libertà. Che poi Hura, in arabo (la lingua nativa di Wafaa) significa proprio questo: libera.
Hura è andare oltre.
Rappresenta il mio nuovo modo di raccontare l’arrampicata, più in generale la montagna e, ancora più in generale, qualsiasi cosa mi circonda. Avete presente che da quando siamo stati colpiti dalla pandemia abbiamo continuato a parlare di ritornare al lato umano delle cose? Suona banale, me ne rendo conto.
Eppure è anche vero che la banalità è figlia del buonsenso.
Io pensavo che l’arrampicata non avesse più niente da insegnarmi.
Sapevo che è una delle più calzanti metafore della vita: provi, cadi, fallisci, perseveri fino a raggiungere l’obbiettivo. Della serie: “Il successo passa per l’insuccesso”.
Sapevo che quando è nata, essa non era altro che un gioco, una forma di evasione dall’alpinismo eroico sulle grandi montagne. Rappresentava il bisogno inespresso verso qualcosa di più genuino e leggero rispetto ad una maliziosa ambizione narcisista. Della serie: “Il successo passa solo ed esclusivamente per la vetta”.
Sapevo che l’arrampicata è convivialità e birrette. Amicizia e birrette. Scoperta e birrette. Viaggio e anche l’ultima birretta (quella del viaggio).
Scherzi a parte, ciò che non avevo avuto l’opportunità di approfondire da vicino finora era che l’arrampicata potesse anche educare, insegnare.
Ascoltare Wafaa è stata per me l’opportunità imparare.
Raccontare Hura mi piacerebbe fosse un modo per trasmettere un messaggio ed educare (senza salire in cattedra eh!).
Ho sentito il bisogno di dare il mio piccolo contributo sull’onda degli esempi positivi che ho avuto modo di constatare negli ultimi mesi all’interno del settore dell’outdoor. Cito per fare un esempio lo schieramento politico da parte di numerose aziende nel corso delle elezioni americane, la rescissione da parte di arrampicatori professionisti di contratti da migliaia di euro nei confronti delle multinazionali, l’istituzione da parte degli stessi di fondazioni benefiche, la presa di posizione da parte dei media nel riconsiderare l’utilizzo dei social media e gli altri numerosi esempi che, di base, stanno dando lo stesso messaggio: il tempo delle vie di mezzo sta per finire (è una semplice questione di coerenza).
Hura non si ferma a raccontare l’arrampicata in maniera diversa.
Hura, oltre ad essere una storia di rara bellezza, è il tentativo per chiarire quanto sia importante prendere una posizione forte, fare scelte significative, pensare come una collettività, salvaguardare quello che abbiamo di più importante, e soprattutto, voler imparare.
Avete presente quando parlavo di “andare a fondo, oltre la superficie”? Ecco, penso abbiate capito il concetto.
Andare oltre, per quanto sia piccolo il nostro passo, può davvero salvarci.
Giorgia, una persona i cui occhi parlano prima delle labbra, me l’ha spiegato così: “Sono nata quadrata, ma vorrei tanto morire tonda”.
E se allora siamo nati quadrati, visto che si parla delle geometrie della vita, giriamo l’angolo.
Per magari, un giorno, accorgerci che quell’angolo non è mai esistito.
Per magari, un giorno, morire tondi.
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