Morenic Trail_2023_Ph Pierre Lucianaz

L’America è su una barca: Morenic Trail

by Raffaele Guzzon

photos Pierre Lucianaz

 

Ci sono posti in cui non sei mai stato, ma che appena ci arrivi ti sembrano familiari. Nato e cresciuto nei pressi degli Appennini, mi ritrovo a respirare aria di casa in questa montagna che montagna non appare, alla vista dei giganti che la sovrastano e verso i quali tutti siamo passati, almeno una volta, senza neanche accorgerci che prima ci fosse altro da conoscere. Questo “altro” è la Serra di Ivrea, un ampio sistema di colline formatesi dal ghiacciaio della Val d’Aosta in un’epoca remota.

Ci raccontano che la lingua glaciale, oggi completamente scomparsa, luogo di straordinaria attualità, fosse lunga un centinaio di chilometri e alta 800 metri. La morena che il ghiacciaio ha trascinato fin qui, alle porte della Pianura Padana, è una cosa così grande che neanche ci si rende conto, attraversandola in autostrada, che sia un unico ecosistema, geologico prima, ambientale, culturale e sociale poi. Campagne una volta densamente abitate, poi spopolate, oggi parte dell’immensa provincia italiana alla ricerca di un senso e di un futuro. Lo testimoniano il reticolo di muretti a secco e terrazzamenti nei boschi, le chiese e i capitelli rurali nella loro dignitosa, elegante, semplicità. Castelli sabaudi, borghi e bonifiche oggi decisamente sproporzionati, fuori luogo in una terra svuotata dal richiamo della grande città, anzi delle grandi città. Torino e Milano, distanti poche decine di minuti d’auto, appaiono lontanissime passeggiando in una sera di questa estate infinita per Ivrea che, placida e provinciale, si compiace della Dora Baltea che non solamente l’attraversa, ma quasi pare provenirne, come se la vera origine del fiume fosse problema d’altri. La grande città ha esercitato un fascino irresistibile, ancor più da quando la parabola dell’Olivetti, ricordata in piazze e monumenti un po’ dappertutto con orgoglio misto a disincanto, è giunta al termine spegnendo la possibilità che il futuro, quello con la f maiuscola, passasse dalle sponde della Dora Baltea.

ivrea, morenic trail
ivrea, morenic trail

Come nelle migliori tradizioni montane c’è chi non si rassegna all’oblio. Quando la rivoluzione industriale langue, la ricetta è sempre quella da nord a sud dello stivale: sport ed enogastronomia ad attrarre il potenziale turista. La Serra di Ivrea oggi è innervata da una rete di sentieri; un’alta via, nome pretenzioso per un sentiero scenografico, impeccabile nella segnalazione e logico nella tracciatura, che però raramente supera i 500 metri sul livello del mare. Certo, ci vuole fegato a puntare sull’outdoor quando alle spalle hai il Monte Rosa e gli altri giganti, ma qui in effetti ci si può divertire parecchio tra sentieri, percorsi ippici e ciclabili, falesie, sport acquatici sui numerosi laghi. Eppoi c’è l’immancabile enogastronomia, siamo pur sempre in Piemonte. Anche essa ci racconta, come spesso solo il disincanto dell’agricoltura sa fare, di un’andata certa e di un ritorno possibile. Castagne ed Erbaluce di Caluso. Farina dei poveri nelle terre alte, appenniniche o alpine chi e siano, fin dove l’albero del pane mette radici. I metati, locali per l’essicazione delle castagne, sono ancora sparsi per i boschi, li si è incontrati, ridotti a ruderi, lungo l’alta via. L’Erbaluce di Caluso è un vino anarchico, in terra Piemontese ci vuole coraggio a puntare tutto su di un vino bianco, per di più piuttosto scontroso in gioventù, che pretende tempo per dare il meglio di sé.

Oggi la destinazione è Brosso, borgo contadino appoggiato alle montagne sull’estremità occidentale della morena. Tetti d’ardesia, case antiche di una eleganza contadina, una piazza e 600 anime tra cui pare che di irriducibili ce ne siano parecchi. Così tanti da richiamare una piccola folla in un venerdì di fine settembre e non per le castagne o per l’Erbaluce. Il Morenic Trail, questo è la ragione per la quale io e Filippo ci siamo sciroppati 5 ore di automobile, ha la bella idea di percorre tutta la morena, partenza e arrivo distano pochi km in linea d’aria, ma ci vogliono 120 km, e nel mio caso 17 ore abbondanti, per fare giro della Serra. Il Morenic Trail è una gara esemplare nel panorama italiano, che tanto racconta di come stia evolvendo questo sport. Si corre la dodicesima edizione, è quindi a suo modo una gara storica, per altro su un percorso di assoluta logicità che ricalca in buona parte quell’alta via di cui sopra. Il Morenic è tra le nove gare italiane che aprono le porte, o meglio l’urna, di Western State 100, assieme a mostri sacri di ben altra dimensione, economica ed organizzativa, come il Tor des Géants o la Lavaredo. Tuttavia, il suo essere fuori dai grandi circuiti fa sì che ai nastri di partenza ci siano a malapena una cinquantina di iscritti sulla distanza regina, nonostante i 120 km che sulla carta, con neanche 3000 metri di dislivello positivo, disegnano un percorso corribile e apparentemente poco selettivo. Se si considera il numero di volontari e la dedizione che ci mettono è quasi incomprensibile questo impegno, vista la modesta partecipazione, anche considerando le gare “minori” che porteranno altre decine di partecipanti. È naturale domandarsi per quanto reggeranno ancora queste gare un po’ anarchiche, saranno fagocitate dai grandi circuiti, omologate su distanze e format, o si spegneranno per mancanza di adesioni e di visibilità?

Morenic Trail_2023_Ph Pierre Lucianaz

Sabato mattina sulla linea di partenza si respira il buon vecchio spirito delle gare di “trail di una volta”. Palestra dismessa ad ospitare i corridori negli ultimi preparativi scaramantici, controllo materiale obbligatorio ridotto all’essenziale, uno dei plus sicuri della gara, caffè, pisciata rituale, chiacchiere scaccia ansia, promesse e impegni solenni di partire piano che “sarà lunga”. Infatti, dopo il solito sermone, si parte aggredendo con le unghie con i denti e con la solita velocità insensata, per chi ne avrà fino a notte, la salita. La prima e unica salita nei successivi 45 chilometri. Un velleitario strappo d’asfalto per raggiungere il punto più alto della morena da cui poi precipitare, in una linea praticamente retta, fino alla Pianura Padana. “La boscaglia sgretola e ricopre il lavorio delle generazioni nei secoli, ma lo sguardo inconsapevole coglie l’incanto di una natura incontaminata”, parole non mie e che descrivono un’altra montagna, un altro abbandono, ma che mi rotolano in testa mentre corro questi primi 40 chilometri. Il Morenic in buona parte si snoda su sentieri e vecchie strade rurali, se ne intuiscono i limiti attraverso i muri a secco, i terrazzamenti, i capitelli, qualche muro di metato o di tugurio per pastori e contadini, ma la strada è tutt’altro che agevole. Il terreno è inusuale, sabbie di quarzo e granito, sassi levigati dal lavorio del ghiaccio prima e dell’acqua poi, enormi massi erratici e la natura, quella cattiva, che ha ripreso il suo senza tanti complimenti e ti costringe a porre attenzione ad ogni passo, senza mai veramente lasciarsi andare. Il panorama cambia nella parte centrale della gara. Il paesaggio e le persone hanno un tratto comune, ma si adattano alle diverse quote, mutando dalla collina al confine con le grandi montagne della Val d’Aosta, fino al guado della Dora Baltea che attraversa la pianura Padana. Il cuore del Morenic è questo, un ampio sistema di dolci colline, fitti boschi, strade di campagna che attraversano borghi rurali, alcuni umili e sonnacchiosi, altri sontuosi, dominati da fortezze. Riuscire a correre questa sezione, fino alla chiesa di Santo Stefano che al settantacinquesimo chilometro è meta ambita, se non altro per la possibilità di ritrovare il proprio cambio, è la chiave di volta per vincere la gara, o per lo meno per sperare di arrivare in fondo. La cosa si rivela meno semplice del previsto. Saranno i quadricipiti fiaccati dalla discesa iniziale, sarà il caldo fuori luogo, sarà il fatto che chilometri e chilometri di bosco fitto, identico a sé stesso, senza un punto di riferimento o uno squarcio di panorama ti costringono inevitabilmente a concentrati su te stesso, sul respiro affannato, sul sudore che strappa energie, e ti accompagnano senza tanti convenevoli nella caverna a scavare per riuscire a mettere un piede davanti all’altro.

Morenic Trail_2023_Ph Pierre Lucianaz
Morenic Trail_2023_Ph Pierre Lucianaz

Nella caverna di solito non ci si accorge di essere entrati, ci si trova all’improvviso. Basta un rettilineo assolato che in teoria potresti correre agevolmente e che, invece, trovi a camminare con il fiato corto, un ristoro deludente per colpa del tuo stomaco, la noia che ti assale quando i tuoi programmi si dimostrano velleitari. Ma la caverna ha una fine, che arriva altrettanto inattesa. Il gran ristoro si rivela anch’esso una mezza delusione, non me né vogliano gli organizzatori e i ragazzi che ci accolgono, ma lo stomaco è chiuso, il caldo non molla, le sensazioni ricordano quelle di un’altra traversata che proprio bene non era finita. È in questi momenti che ci vuole qualcuno che faccia la cosa giusta per te. Chi se ne intende, e ci è stato, me lo ha raccontato più di una volta. Oltre Oceano ai ristori c’è gente che corre e che per quella volta ha deciso di darti una mano. La crew è una ricetta raffinata, un cocktail da miscelare con cura. Personalmente non amo scomodare le persone che mi sono accanto ogni giorno. In effetti già fanno tanto nel supportare e sopportare questa follia, figurarsi obbligarle ad accompagnare per ore uno che puzza di morto. Ci vuole qualcuno che abbia la stessa dedizione allo snocciolare dei chilometri, che sappia che fare per tirarti fuori per i capelli dal buco in cui ti sei infilato. Nel mio caso, e non è la prima volta, è Filippo a ricacciarmi sulla strada. Poche parole, la presenza, gesti semplici come riempire una borraccia o darti un piatto di minestra, parlare d’altro, mentire spudoratamente sul tuo stato, non spegnere la fiammella che ti tiene in piedi. Così ti ritrovi a correre verso il ristoro del centesimo chilometro, a farci un pensiero, sulla polenta e sambuca che un tizio baffuto ti offre con disinvoltura, ad amare il cono di luce della frontale dove iniziano e finiscono i tuoi pensieri, a ripartire sapendo che gli ultimi diciannove chilometri, tutti in salita, saranno duri e tediosi, ma al contempo non vedere l’ora di tirarli tutti d’un fiato.

Ci sono parecchie ultramaratone che attraversano corsi d’acqua, ma me ne vengono in mente solo due dove puoi trovare un gommone a farti attraversare il fiume, obbligandoti ad aspettare qualche altro concorrente, invece che tentare di staccarlo. Per pochi istanti il tempo si ferma, il battito rallenta, trattieni il respiro per vivere un momento che hai atteso per mesi e al quale non speravi, in fondo, di arrivare. Il ripartire, al di là del fiume è un nuovo inizio, nulla è scritto, nulla è certo, ma una cosa l’ho capita. L’America la puoi trovare ancora anche qui, basta cercarla lontano dai riflettori e dai sentieri tirati a lucido. Per qualche ora l’ha bagnata la Dora Baltea, chissà dove ci aspetterà la prossima volta?

dora baltea, morenic trail 2023
Morenic Trail_2023_Ph Pierre Lucianaz
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