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Anything beyond Instagram: Larry Gassan

ITW & Photos: Larry Gassan
By: Elisa Bessega

Larry Gassan è un fotografo californiano ed ex ultrarunner. È diventato una figura di riferimento nella comunità della corsa su lunga distanza grazie ai suoi progetti “Finish Line Portrait Project” e “Dead Man’s Bench”, scattatati durante le storiche 100 miglia Western States e Angeles Crest. Ho avuto il piacere di fare una chiacchierata con lui, ed è stata l’intervista più esilarante che abbia mai fatto.

Larry. Non sapevo quale aspetto del mio lavoro ti interessasse e, beh, quando hai detto che sei italiana ho pensato che ovviamente avresti voluto parlare di Michele Graglia. L’ho incontrato nel 2014, quando lo ho fotografato ad Angeles Crest. L’ho visto arrivare sul sentiero del Baden Powell e la mia prima reazione è stata: è troppo fottutamente bello per finire questa gara [poi è arrivato secondo, n.d.r.].

Elisa. [ride]

L. No, voglio dire, sai: rispetto a lui noi siamo tutti scimmie.

E. Interessante [ride], ma in realtà volevo parlare del tuo lavoro fotografico. L’idea di questa intervista nasce da una conversazione con un amico surfista e fotografo. Mi diceva che, tra tutte le discipline outdoor, il surf è il più noioso perché c’è solo una cosa da scattare, ovvero la classica immagine del surfista al centro del tunnel di una grande onda, possibilmente al tramonto. Per lui, la fotografia di surf non sarebbe altro che cercare di avvicinarsi il più possibile a quella singola immagine.

Mi ha fatto pensare che in realtà ogni sport ha le sue pose standard. Chiaramente la varietà delle composizioni possibili dipende anche dall’ambiente e dal numero di movimenti che caratterizzano ciascuna disciplina, ma alla fine la fotografia sportiva è fatta soprattutto di immagini che cercano di avvicinarsi il più possibile alle convenzioni più popolari. Il che, a lungo andare, la rende noiosa. Quello che mi piace dei progetti “The Finish Line Portraits”, “Dead Man’s Bench” e del tuo lavoro in generale è che riescono ad essere incisivi senza ispirarsi a nessuna di quelle pose. Perché?

L. Sono d’accordo. Nella fotografia di surf tutti stanno cercando di ripetere quello che LeRoy Grannis ha fatto cinquanta o sessanta anni fa. Nella corsa e nella fotografia sportiva in generale è la stessa cosa. Quello che è successo con il progetto “Finish Line” è che me ne stavo lì in piedi a Western States, nel 2009, ad aspettare che passasse qualche atleta, il sole batteva e l’aria era calda come l’inferno. Nella mia carriera di trail runner ho completato nove 100 miglia tra il 1991 e il 1998, tre delle quali ad Angeles Crest. Ora, dopo aver smesso di correre, ero di nuovo lì a morire di caldo per scattare foto e ho pensato: cazzo, che stiano loro a sciogliersi sui sentieri, io ho finito con questa rottura. E così sono tornato al traguardo dove ho allestito uno studio mobile.

Le foto di corsa tipiche di allora erano il fotogiornalismo sportivo a colori e qualche istantanea. In quel momento avevo un’opportunità unica di scattare ritratti dove nessuno l’aveva fatto prima, e così ho immortalato ogni finisher con una Hasselblad 500C vintage di medio formato su pellicola in bianco e nero. Il progetto “Dead Man’s Bench” invece è nato quando il direttore di gara di Western State mi ha licenziato, l’editor diceva che chiunque avrebbe potuto scattare foto come le mie: “basta mettere qualcuno vestito da runner in piedi davanti a un garage e lanciargli addosso un po’ di terra.” Era davvero uno stronzo [ride]. A dire il vero mi stavo stancando di quel tipo di ritratti perché al traguardo tutto è già deciso. Mi sono detto: bene, ora posso tornare a scattare quello che voglio. Poi ho visto un’immagine pubblicata da un corridore taiwanese di nome Jack Chang, c’erano due dei suoi amici accasciati sulla “Dead Man’s Bench” durante Angeles Crest 100, e sembrava che qualcuno li avesse appena picchiati. Quell’immagine, in quel punto esatto, era la foto che volevo.

Così nell’estate del 2015 sono andato alla “Dead Man’s Bench” con un kit minimo e ho iniziato a scattare. La panchina prende il nome da un ragazzo del mio running club, era morto su un sentiero poco più in là. È un punto ristoro non ufficiale che si trova circa al centoventesimo chilometro su 160, un momento della gara in cui tutto è ancora da decidere. Su quella panchina assisti a un crollo generale: nessuno sa ancora se riuscirà a finire o se schiatterà al suolo da qualche parte prima del traguardo, credo che quest’aria di incertezza sia estremamente interessante. Non trovi altri fotografi di gara lì intorno perché è un punto dove i runner passano nel cuore della notte e raggiungerlo è una gran rottura.

E lascia che te lo dica, le notti di Angeles Crest sono fottutamente buie. Ero lì che guardavo attraverso il mirino senza riuscire a mettere a fuoco nulla, cercavo di indovinare, le zanzare mi stavano mangiando vivo e c’era ogni sorta di problema tecnico. Anche lì scattavo su rullino, sapevo che alla fine mi sarei potuto ritrovare con un mucchio di spazzatura, ma se avesse funzionato, le immagini sarebbero state molto più interessanti.

E. E con questo torniamo alla mia domanda: siamo d’accordo sul fatto che nella fotografia di corsa ci siano scene standard molto popolari e ben commerciabili, tipo quelle con il runner in bilico su una cresta affilata, oppure mentre salta da un sasso all’altro con bel panorama sullo sfondo. Tu hai ignorato tutte le composizioni convenzionali di questo genere e hai creato le tue scene standard dove non si vede nessun panorama e l’unico elemento oltre ai soggetti è un lenzuolo sullo sfondo oppure una panchina nell’oscurità. L’intera attenzione è rivolta alle persone, forse è questo che rende le tue immagini così interessanti?

L. Dipende tutto dal rullino. Uso principalmente un medio formato, e quando lavori con questa ragazzaccia [indica la sua Hasselblad] devi fare molta più attenzione. Mi costringe a scattare in modi e spazi non convenzionali e le persone reagiscono in modo diverso. Con la tecnologia oggi è quasi impossibile non portare a casa una bella foto. Guarda Joe McNally, cristo. Quando era a Tokyo per scattare durante le Olimpiadi ha portato a casa qualcosa come 30 mila immagini.

Non fraintendermi, è del tutto legittimo, ma io mi sono detto “ok, facciamo un passo indietro e ritagliamoci un posto diverso.” Scattare su rullino è una gran rottura di palle anche dopo lo scatto in sé: poi devi svilupparlo e, spoiler, devi anche saperlo scansionare e digitalizzare correttamente in modo da ottenere qualcosa che vada al di là di un’immagine da Instagram. Ho passato gli ultimi quindici anni a inseguire questa chimera, e alla fine forse mi ha portato da qualche parte.

E. Quindi è solo una questione di tecnica? Le tue immagini raccontano storie intense, direi che, al di là degli strumenti che usi, c’è un intento preciso, e mi sembra che abbia più a che fare con il documentarismo e il fotogiornalismo che con la ricerca di un’estetica vendibile, come succede invece nelle immagini pubblicitarie o nelle foto di prodotto.

L. Io scatto come un ibrido tra artista e fotoreporter documentarista. E runner: le mie esperienze di finisher di 100 miglia sono state essenziali per conoscere le convenzioni di questo sport e gli aspetti più interessanti da raccontare. Le cose accadono davanti alla fotocamera, e io scelgo ciò che vale la pena immortalare. Come è successo con la foto di Maria Lordes e Alejandra. Alejandra stava massaggiando le gambe di Maria sulla panchina, nessuna delle due prestava attenzione a me eppure mi trovavo a un braccio di distanza, stavo usando un obiettivo grandangolare e avevo bisogno di catturare quanta più luce possibile.

Ho scelto questa come immagine principale della mostra che ho fatto sul progetto “Dead Man’s Bench”. Perché? Perché, tornando al tuo discorso su standard e cliché, le ultramaratone e gli sport outdoor sono rappresentati principalmente da immagini di maschi bianchi. E se si tratta di donne, sono per lo più ragazze bionde. Lì avevo di fronte a me queste due donne latine che si aiutavano a vicenda, e nessuno sapeva chi fossero. Non erano atlete sponsorizzate. Non avevano followers su Instagram. Non stavano vendendo nessuna stronzata sui social.

Erano semplicemente lì ad aiutarsi a vicenda per superare la nottata. E mi sono detto: queste sono le persone che voglio nelle mie foto. Le ho rintracciate attraverso amici in comune e ho detto loro che sarebbero comparse nella mostra. Quando sono arrivate hanno alzato lo sguardo e hanno detto: merda, quelle siamo noi! Questa è l’idea da cui parte tutto. Voglio che delle persone normali si esaltino a rivedersi su una stampa di un metro per un metro e mezzo. La fotografia pubblicitaria non gioca nessun ruolo in questo processo, sebbene la fotografia pubblicitaria possa poi utilizzare immagini del genere, a condizione che abbiano qualche tipo di rilevanza e credibilità per il prodotto.

E. Come riesci a bilanciare questo stile sopra le righe con la necessità di vendere i tuoi lavori?

L. Il mio sensei dell’east coast dice che puoi fare foto carine che ottengono molti mi piace su Instagram, oppure puoi fare foto interessanti. Le prime si vendono più facilmente, ma hanno una vita molto più breve, devi solo decidere a quale mondo appartieni. È un compromesso, come nella vita. Non ho avuto una carriera spettacolare. Non ho mai vinto award o roba del genere, ero troppo occupato a correre e ad andare in montagna. Eppure il motivo per cui tu e io stiamo avendo questa conversazione è perché tu, e qualcuno come te, ha detto: “ehi, le foto di questo tipo non assomigliano per niente a tutto il resto”. Quindi, alla fine, ne è valsa la pena.