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Spedizione sul Monte Kenya

Paolo Sartori è un fotografo e un videomaker, ma prima di ogni altra cosa un profondo conoscitore e amante della montagna e un alpinista. Tornato dalla sua ultima spedizione sul monte Kenya ha condiviso con noi alcune riflessioni che ha maturato durante la missione.

Italia – Nairobi – Monte Kenya e ritorno: Paolo Sartori, insieme alla crew composta da Tazio Ferrari, Alain Vignal, Mattia Lia e Lena Drapella, è tornato da qualche mese dall’ascensione del monte Kenya, la seconda montagna africana più alta dopo il Kilimangiaro. “A differenza del Kilimangiaro, che è frequentatissimo, sul monte Kenya salgono in pochi: mentre sulla cima del primo si arriva con un trekking, l’altro è più tecnico e bisogna arrampicare per raggiungere la vetta.”

Niente che tu non abbia già fatto sulle Alpi o in giro per il mondo…
Sì, sia io che gli altri, abbiamo una discreta esperienza in montagna e siamo abituati e cime ben più tecniche. Tazio ed Alain sono addirittura guide alpine, quindi una salita di difficoltà classica come il monte Kenya certamente non ci spaventava. Quello che però ci ha sia messo in difficoltà, e che ci insegnato qualcosa, è stato il meteo, o meglio la mancanza di informazioni certe su di esso e sulle condizioni della montagna. Di solito non capita mai di non avere dei siti di riferimento affidabili, o di non conoscere nessuno che abbia già fatto quel percorso recentemente prima di te e che ti possa dare delle indicazioni: facendo un giro di telefonate in Italia riesci a scoprire in breve tempo quelle che possono essere le criticità a cui andare incontro, lì eravamo totalmente al buio. Sapevamo di essere in grado di affrontare la salita, ma ci mancavano tutta una serie di informazioni che solitamente contribuiscono a creare la nostra zona di comfort come alpinisti. In parole povere eravamo in balia della montagna, dovendo fare affidamento soltanto su quello che potevamo vedere, sul nostro intuito e sulla nostra esperienza. Poi c’è un altro fattore da contare, lì sei a una settimana di viaggio da Nairobi, in un territorio dove non c’è soccorso alpino, perciò, benché la montagna in sé non presentasse particolari criticità, siamo stati molto scrupolosi e la sensazione è stata quella di ritrovare un po’ lo spirito dell’alpinismo com’era 50, 60, o 70 anni fa, o almeno come noi ci immaginavamo che fosse. Sebbene si tratta di vie ripetute molte volte ogni anno, il fatto di essere gli unici alpinisti in zona e di non avere informazioni ha creato un clima che non ho sperimentato nemmeno l’anno scorso quando, come fotografo, ho seguito due spedizioni in Karakoram. In quei casi, anche se le vie di salita erano molto più difficili, al campo base giungevano previsioni meteo accurate con cadenza giornaliera. Partire per una salita senza avere la minima idea di come evolverà il meteo è stato una cosa nuova per tutti noi.

Ci siete riusciti alla prima?
No, il primo tentativo fatto è fallito, appunto perché abbiamo dovuto rinunciare a metà per via delle condizioni avverse. In un territorio tanto vasto le stazioni meteo non sono capillari, e anche con i nostri dispositivi Garmin non siamo riusciti a individuare la finestra di bel tempo con sufficiente precisione: doveva essere estremamente soleggiato e così è stato per il trekking di avvicinamento, che è durato cinque giorni, con una marcia iniziata a 2500 metri d’altitudine e che ci ha portato ai 4300m di Shipton Camp. Da lì poi abbiamo fatto il nostro primo tentativo una mattina che in teoria doveva essere bellissima, mentre invece ha iniziato a nevicare, c’era vento, nebbia e poi c’erano delle nubi dense che incutevano un certo timore. Anche perché il Monte Kenya non fa parte di una catena montuosa, ma è una montagna singola, di origine vulcanica, in mezzo a una pianura sterminata, quindi hai una discreta visibilità su cosa c’è intorno a te e arrivati all’incirca sui 5000 ci siamo resi conto che le nuvole continuavano ad addensarsi e che probabilmente si sarebbe scatenato un temporale di lì a breve. Abbiamo deciso di scendere: col senno di poi il temporale non è mai arrivato, ma in quel momento abbiamo preferito non rischiare di trovarci in condizioni di difficoltà.

Buona la seconda quindi.
Yes. A quel punto abbiamo deciso di fare il giro intorno al massiccio, per salire dall’altro lato della montagna e provare ad arrivare in cima tre giorni dopo, nell’ultimo slot che avevamo a disposizione prima di partire. Lì paradossalmente è successo il contrario: le previsioni non erano ottime, perciò abbiamo fissato la partenza alle quattro del mattino con poche aspettative se non quelle di dare il nostro meglio; alle undici della sera precedente c’erano condizioni pessime, con una nevicata che anche a detta dei nostri portatori locali è stata un evento eccezionale. Fortunatamente però siamo riusciti ad andare e anche a tornare sfruttando poche ore di inaspettato bel tempo: ha iniziato a piovere cinque minuti dopo essere rientrati al campo base. Il terreno ci ha agevolato: abbiamo trovato roccia perfetta con difficoltà che ci ha permesso di procedere quasi sempre in conserva, ma la vera ricompensa della giornata è stata la vista. Non ho mai visto un’alba come quella mattina, e mentre gradualmente guadagnavamo quota potevamo vedere panorami che si estendevano sempre più verso un infinito fatto di pianure e colline verdeggianti. Questa salita non rientra in nessuna top 10 per quanto riguarda difficoltà o performance, ma ci ha fatto capire come un’esperienza del genere possa essere molto appagante senza dover per forza battere chissà quale record di velocità o conquistare chissà che grado.

Ultimamente invece l’alpinismo sta prendendo molto la piega della super performance.
Sì, e questo è un peccato: l’attività in montagna in generale è sempre più incentrata sul grado di difficoltà o sulla velocità. La nostra esperienza in Kenya è stata l’opposto: non c’era bisogno di stare a confrontarsi con chi lo aveva fatto prima, con chi ci ha messo di più, con chi ci ha messo di meno, noi eravamo lì per il solo fatto di voler vivere quell’esperienza con le nostre capacità e il nostro amore per la montagna. Ne ho parlato molto anche con i ragazzi che erano in Kenya con me: far diventare l’alpinismo una questione di gradi o di record è veramente riduttivo, ci sono troppe altre cose in ballo e uno riesce a godersele solo se si concentra sull’esperienza in sé, non sulla performance. E poi ogni salita può essere challenging, comunque avrai sempre decisioni da prendere e valutazioni da fare: come nel nostro caso, non si trattava di una spedizione in cui corri il rischio di non tornare, quelle che fanno gli alpinisti di punta, ma una decisione sbagliata sarebbe stata sufficiente a trasformare il viaggio in un disastro.

Come hai mai hai scelto il monte Kenya?
Principalmente perché sono abbastanza innamorato dell’Africa, è una meta che avevo in testa da un po’, ma il Kilimangiaro mi interessava relativamente perché è una vetta molto commerciale. Un giorno stavo facendo delle ricerche per un safari e nelle foto vedevo sempre questa montagna solitaria e aguzza, così ho iniziato a informarmi meglio e più cercavo e più l’idea di salire fino in cima mi stuzzicava. Il fatto poi che sia una meta poco battuta rende tutto più romantico, c’è il trekking intorno al massiccio, quindi parliamo comunque di una zona lievemente antropizzata, ma tutta da scoprire. Non è un tipo di esperienza blasonata e gettonata come salire fino al campo base dell’Everest, prima di partire ero riuscito a trovare poche informazioni, sia sul percorso a piedi, che sulla parte di arrampicata, e questo ha fatto scattare l’istinto dell’esploratore.

In merito all’organizzazione pratica della spedizione? Come ti sei mosso?
Per organizzare questo tipo di viaggi è fondamentale mettere insieme il team giusto e finalmente lo scorso aprile ne ho avuto la possibilità, grazie anche ad Haglöfs, che ha sostenuto la spedizione come sponsor. Non avevamo mai fatto niente tutti e quattro assieme, ma conoscevo personalmente ognuno di loro da altre spedizioni e ho avuto la fortuna di poterli raggruppare. Incastrando gli impegni di tutti siamo riusciti a partire ad aprile, che per il Kenya non è il massimo perché coincide con la stagione delle piogge, ma questo ci ha fatto forse capire che qui sulle Alpi ci siamo abituati ad uscire solo con le condizioni ottimali, quando l’esperienza ti connette molto di più con l’ambiente anche se non si verificano tutte le condizioni che vorremmo.

Tu hai citato il Kilimangiaro, oltre al discorso della performance, nel mondo dell’alpinismo e del climbing ora come ora c’è molto hype anche riguardo alle missioni, vedi le Seven Summits, o i quattordici ottomila.
È vero ed è un peccato, perché si riduce quella che dovrebbe essere l’esperienza personale di ognuno a un qualcosa da raggiungere a tutti i costi perché fa status. È un po’ quello che nel mio mondo, quello della fotografia, è successo con Instagram: se vai in Islanda devi per forza fare le foto a quei quattro posti dove sono stati tutti e che sono i più famosi.
Fare i 14 ottomila ora va molto di moda e in tanti lo fanno letteralmente ad ogni costo, anche ambientale, e chissenefrega di come sono arrivato in cima, o come sono arrivato a toccare quei quattordici punti, magari arrivando in elicottero fino al campo base. Ho sentito di gente che si è messa i ramponi per la prima volta nella vita proprio al campo base dell’Everest. Ecco, così è troppo. Perché se è vero che l’hype che c’è ultimamente intorno alla montagna sta facendo sì che molte persone si avvicinino ai valori dell’alpinismo e della scoperta della natura, il rovescio della medaglia è che siccome va di moda chi se lo può permettere paga qualsiasi cifra per provare l’experience di salire su un ottomila. Così, oltre a causare un danno ambientale sfruttando troppo determinati posti, si perde tutto il fascino dell’ignoto e dell’esplorazione: per noi è stato molto bello fare questa esperienza in Kenya proprio perché siamo arrivati senza sapere veramente cosa aspettarci.

Il tema, per quanto riguarda le mete più gettonate, è anche quello di uno sfruttamento eccessivo del territorio.
Esattamente: ci sono posti della Cordillera Blanca in Perù, del Nepal o del Karakoram che assomigliano a delle discariche tanti sono i rifiuti che vengono lasciati in giro dagli escursionisti. Una delle cose che ci ha stupito in positivo dell’ascensione al monte Kenya e che abbiamo sperimentato nei dodici giorni di viaggio è invece l’estrema pulizia che abbiamo riscontrato.

Come scegli le mete per le tue escursioni?
Per esempio anche leggendo The Pill! Ma in generale direi che la strategia migliore è quella di essere molto curiosi, di certo non cercando sui profili di chi ha milionate di follower, ma magari seguendo chi ha uno stile di alpinismo che ci piace, e poi approfondendo, facendo ricerca. Oggi come oggi sul web si trova molto, ma anche chiedendo a chi è stato su una vetta prima di noi, documentandosi, cercando mappe delle zone dove si vuole andare.