The North Face Global Climbing Days

The North Face celebra il Global Climbing Days

The North Face Global Climbing Days
The North Face Global Climbing Days

L’arrampicata è di tutti: The North Face celebra il Global Climbing Days

Limiti da superare, inclusività e paure da vincere. Ma anche disturbi alimentari nel climbing e rapporto con i social (che, spoiler, non piacciono a nessuno). Ne abbiamo parlato con gli atleti Camilla Moroni, Jacopo Larcher e James Pearson, che ci hanno raccontato anche i loro prossimi progetti.

Un evento per celebrare l’arrampicata in tutte le sue sfaccettature. Una festa per far incontrare una comunità unita dalla stessa passione. Un’occasione per ricordare a tutti che possiamo sempre provare a superare i nostri limiti, che sia su un grado basso o alto, su un blocco o in parete, in palestra o fuori. Il Global Climbing Day 2023 è stato tutto questo e ancora di più. Dopo gli eventi organizzati nelle palestre europee di Londra, Berlino, Chamonix, Parigi e Cortina d’Ampezzo lo scorso 19 agosto, The North Face il 13 settembre ha portato il Global Climbing Day nella palestra Urban Wall di Pero, alle porte di Milano, confermando anche quest’anno il proprio impegno nel rendere l’arrampicata sempre più inclusiva e accessibile. A condividere le proprie esperienze con i numerosi climber appassionati che hanno partecipato alla serata sono stati gli atleti del team Jacopo Larcher e James Pearson, che hanno condotto dei workshop su vie multi-pitch e uso del portaledge, e Camilla Moroni, che ha fornito qualche consiglio pratico nella zona boulder.

Abbiamo colto l’occasione per chiacchierare con questi tre atleti del presente e del futuro dell’arrampicata, mondo di cui in effetti incarnano diverse sfumature. Moroni, campionessa italiana di boulder e parte del gruppo sportivo delle Fiamme Oro, è decisamente concentrata sulle competizioni e soprattutto sugli eventi di qualifica alle prossime Olimpiadi – anche se ogni volta che può torna a mettere le mani sulla roccia, il suo migliore antistress. Anche Larcher si è dedicato al mondo delle gare per diversi anni, ma ha poi trovato la sua strada altrove: in falesia, nelle vie tradizionali, nell’arrampicata multi-pitch, nei big walls… insomma, ovunque possa mettersi ancora alla prova con qualcosa di nuovo e straordinariamente difficile. Negli ultimi anni, tra le altre cose, ha realizzato la prima ascesa di Tribe, la salita di Meldown in California e la ripetizione in libera di The Nose e Magic Mushroom su El Capitan. Pearson, che dopo la sua primissima esperienza sulla roccia è diventato in pochi anni una delle stelle dell’arrampicata inglese, è esperto in tutto: dal bouldering alle vie lunghe. Ciò in cui eccelle davvero, però, è l’arrampicata trad, ambito in cui ha collezionato alcune salite considerate tra le più difficili al mondo.

The North Face Global Climbing Days

Com’è cambiato il vostro rapporto con l’arrampicata nel corso degli anni?

Camilla Moroni

Camilla Moroni: «Ho iniziato ad arrampicare da piccola. I miei genitori già arrampicavano e mi portavano in falesia, ma a volte facevo solo i pendoli, giusto per divertimento. Quando ho iniziato a scalare davvero in realtà mi sono allontanata dalla falesia, perché da piccola avevo paura di volare, e mi sono avvicinata alla palestra e poi al mondo delle gare. Ho fatto il mio percorso in Nazionale Giovanile e poi in Nazionale Senior. L’arrampicata, insomma, è passata dall’essere un gioco a diventare la mia professione. Durante l’adolescenza mi sono anche riavvicinata alla roccia: mi era passata la paura di volare e quindi, oltre ai blocchi, ho cominciato a fare un po’ di vie».

Jacopo Larcher

Jacopo Larcher: «Io ho iniziato a dieci anni grazie a un corso del CAI in palestra. Avevo già provato tanti sport, ma nessuno mi aveva dato la sensazione di libertà che ho provato la prima volta che ho arrampicato. Anche per me all’inizio era un gioco… a dire il vero lo è tutt’ora, ma è un gioco che è cambiato con il tempo. All’epoca non c’erano così tanti corsi di arrampicata per i più piccoli come oggi e io ero l’unico bambino nella palestra di Bolzano. Ho deciso di avvicinarmi al mondo delle gare proprio per condividere questa passione con altri coetanei. Dopo alcuni anni, però, mi sono accorto che mi scocciava viaggiare così tanto per gareggiare senza mai riuscire a vedere i posti in cui mi trovavo. Così ho deciso di abbandonare quel mondo, che conoscevo così bene, per dedicarmi di più all’arrampicata su roccia. Ho iniziato a girovagare senza sapere bene cosa volessi fare, alla ricerca del mio percorso. Piano piano mi sono spostato dal mondo della falesia e dei blocchi a quello delle vie lunghe, dell’arrampicata trad e delle spedizioni, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo che mi portasse fuori dalla mia zona di comfort. L’arrampicata per me resta un gioco in costante evoluzione».

James Pearson

James Pearson: «Il mio rapporto con l’arrampicata è iniziato molto prima della mia prima volta su roccia. Da bambino ero enormemente incuriosito da questo mondo, ma venticinque o trent’anni fa nel Regno Unito l’arrampicata sportiva non aveva grande spazio, non c’erano palestre belle come oggi. Per i bambini era difficile avvicinarsi all’arrampicata, quindi, a meno che non si conoscesse già qualcuno che la praticava. I miei genitori non erano climber, ma insieme facevamo molte escursioni e vedevo spesso persone che arrampicavano: sono cresciuto nel Peak District, probabilmente il posto più famoso di tutto il Regno Unito per arrampicare. Qualche volta mi inerpicavo su un piccolo masso facendo finta di essere un vero climber, intorno ai sette anni ho persino rubato i gessetti da scuola per avere la mia “sacchetta della magnesite”. La prima volta che ho avuto davvero l’occasione di provare l’arrampicata però è stato a 15-16 anni insieme a un mio compagno di scuola e a suo padre: mi è sembrato di fare qualcosa che avevo sempre fatto. Verso i 18 anni ho iniziato a scalare le mie prime vie davvero difficili e pericolose. In quei primi anni il mio approccio all’arrampicata era volto a cercare un rischio sempre maggiore. Mi sono ritrovato a scalare vie che non erano mai più dure di un 8A, ma in cui se cadevi… beh, diciamo che era meglio non cadere. All’epoca ero già un climber professionista con alcuni sponsor, tra cui The North Face, e anche per questo cercavo costantemente di scalare vie sempre più dure e pericolose. A un certo punto ho realizzato che questa strada poteva finire in un solo posto… Dovevo fare qualcosa. Per fortuna ho incontrato Caroline [Caroline “Caro” Ciavaldini, ndr], che oggi è mia moglie e la mamma dei miei due bambini. È un’atleta e una climber molto abile e mi ha indicato lei la strada, mostrandomi come allenarmi per migliorare il mio livello nell’arrampicata sportiva. Questo mi ha poi permesso di provare diversi stili di vie trad con rischi meno folli e più giustificabili. Come coppia di arrampicatori, io e Caro abbiamo vissuto avventure incredibili in giro per il mondo per dieci anni. Quando abbiamo avuto il primo figlio, la nostra consapevolezza è cambiata e abbiamo voluto fare un passo indietro rispetto al nostro impatto sul pianeta. In questi ultimi anni l’arrampicata è rimasta una parte importante delle nostre vite, ma stiamo provando a renderla un’attività più locale e a misura di famiglia».

The North Face ci ricorda che nell’arrampicata, ma non solo, possiamo sempre scoprire che i nostri limiti non sono là dove li credevamo: possiamo spingerli più in là, superarli. Vi ricordate la prima volta che vi è successo?

Camilla: «Mi è successo ai Mondiali 2021, quando in modo assolutamente inaspettato sono riuscita a salire sul podio. Ero veramente felicissima. Su roccia, invece, il mio limite devo ancora scoprirlo».

Jacopo: «Non saprei indicarti un momento preciso. Capita ogni volta che si riesce a fare qualcosa di inaspettato, in allenamento o su un progetto. Il desiderio di cercare di superare una barriera è uno degli scopi per cui arrampico. Una volta superata questa barriera – qualunque essa sia: fare un blocco più alto, una via pericolosa, entrare in finale, salire sul podio… – poi la volta successiva si cerca di fare di più».

James: «La prima volta che ho realizzato di poter essere più di quanto credessi possibile è stato probabilmente quando The North Face ha voluto iniziare a lavorare con me. Ero un climber relativamente sconosciuto al di fuori dal Regno Unito e mi sono ritrovato in una sala enorme, con centinaia di rappresentanti da tutto il mondo, ad ascoltare il CEO che raccontava quanto fosse grande il brand. Da allora credo davvero che tu possa fare quasi qualunque cosa desideri, fintanto che dai il massimo. So che suona come un cliché, ma è vero. È uno dei messaggi che cerco di trasmettere sempre, adesso anche ai miei figli. Molte volte le persone mi fanno delle domande come se fossi una specie di supereroe per via di quello che ho fatto nell’arrampicata nel corso degli anni, ma io provo a spiegare che sono proprio come loro. Climbing is just climbing, che tu lo faccia ad altissimi livelli o solo nel fine settimana. Ma se un giorno decidi di volere qualcosa di più o di diverso, non dovresti mai permettere alle tue paure di mettersi in mezzo. Quasi tutto è possibile con la giusta concentrazione, dedizione e allenamento».

I limiti che possiamo definire fisici o tecnici si superano con l’allenamento, la preparazione atletica e l’esperienza. Cosa fare invece quando abbiamo a che fare con limiti psicologici? Penso alla paura di cadere, ad esempio.

Camilla: «La paura di volare ti passa solo volando! In realtà è una paura un po’ stupida: quando cadi in falesia, a parte casi particolari, tendenzialmente non ti fai niente. L’istinto è quello di avere paura anche se non c’è pericolo. Bisogna imparare a distinguere il vero pericolo da quello che non lo è».

Jacopo: «Se conviviamo con i nostri limiti e basta, non li supereremo mai. Se invece cerchiamo allo stesso tempo di uscire sempre un po’ dalla nostra zona di comfort, allora piano piano superiamo le nostre paure. Se abbiamo paura di volare, ad esempio, proviamo a saltare prima da dieci centimetri sopra l’ultimo spit, poi da un metro, eccetera… Anche secondo me però è importante saper distinguere tra le paure irrazionali, che possiamo provare a superare, e le paure razionali».

James: «Non lo so. Personalmente, devo dire che mi viene naturale. Forse la mia maggiore abilità, tra le mie skills da climber, è la capacità di valutare una via o una situazione in modo logico, capendo in che modo è pericolosa e senza confondere pericolo e paura. Se le scambi, le cose possono degenerare molto velocemente. Le persone mi chiedono spesso come affronto il fatto di prendermi dei rischi, ma per me si tratta più che altro di come affronto la gestione di questi rischi. Molti per me sono ammissibili, ma è una sensazione che cambia in base al momento, a quello che sto facendo, alla fase della vita in cui mi trovo. Prima di diventare padre ero preoccupato, ad esempio. Credo che ciò che mi consente di continuare a essere un climber professionista siano la creatività che metto nei miei progetti e l’abilità di controllare le emozioni in situazioni potenzialmente pericolose, e avevo paura che dopo i figli non sarei più stato in grado di farlo. Non so dire bene come o perché, ma in realtà non è cambiato molto. I miei figli sono diventati un fattore in più nella valutazione che da sempre faccio prima di approcciare una via rischiosa».

Che rapporto avete con i social e con la vostra community online? Sono curiosa di sapere se è di supporto o se diventa talvolta fonte di pressioni, aspettative da soddisfare e giudizi.

Camilla: «Me ne frego abbastanza, devo dire. Posto quello che faccio, ma tendo a lasciare altre cose private. Non sento pressione dal pubblico. Però, se ci pensi, è assurdo dover avere l’ansia perché magari fai un tiro o un blocco duro ma non hai una foto da pubblicare».

Jacopo: «Purtroppo i social al giorno d’oggi fanno parte del lavoro dell’atleta professionista: ognuno poi decide di viverli come preferisce. Io cerco di condividere quello che faccio, ma nel modo che trovo più adeguato. Però spero sempre che questa cosa dei social cambi, prima poi: magari si ritornerà a condividere le proprie esperienze durante gli eventi o le serate, invece che doverlo fare costantemente online».

James, so che il tuo profilo social è condiviso con tua moglie: forse questo rende la tua esperienza un po’ diversa?

James: «Onestamente non mi piacciono per niente i social media e questa è la prima ragione per cui ho un account condiviso con Caroline. Inoltre abbiamo una persona che li gestisce, anche se ovviamente forniamo noi i contenuti. Recentemente però, lavorando su alcuni progetti, ho pensato che i social media forse hanno anche alcuni aspetti positivi. Quando avevo 19 o 20 anni ho avuto un crollo abbastanza notevole, sostanzialmente perché ho sovrastimato enormemente la difficoltà di una via che ho scalato. E in Inghilterra, specialmente nell’arrampicata trad, over-gradare qualcosa è peggio che uccidere la propria madre. Ho vissuto alcuni anni difficili, in cui ho dovuto scendere a patti con quello che era successo e ricostruire la mia carriera. Ecco, non sono sicuro che quel tracollo sarebbe successo oggi. Sono abbastanza certo che la ragione per cui ho over-gradato quella via è che avevo un ego enorme: tutto quello che avevo fatto fino a quel momento era andato bene, mi sentivo quasi magico, ero circondato da persone che mi dicevano costantemente quanto fossi eccezionale… Insomma, non so se sia ancora possibile arrivare ad avere un ego così enorme oggi, dato che sui social media ogni giorno c’è qualcuno che ti dice che sei un idiota!».

Uno degli obiettivi di The North Face è rendere l’arrampicata sempre più accessibile e inclusiva. Secondo voi siamo a buon punto?

Camilla: «Credo che l’arrampicata sia uno sport abbastanza inclusivo, con pari opportunità per maschi e femmine di iniziare a scalare o chiudere un tiro. Anzi, è bello perché spesso maschi e femmine riescono a scalare insieme e, soprattutto su cose più tecniche, le ragazze riescono anche a fare meglio dei ragazzi. Inoltre, adesso il movimento del paraclimbing sta facendo molto, sia con le gare internazionali sia nelle palestre italiane».

Jacopo: «Negli anni l’arrampicata è effettivamente diventata più accessibile, anche grazie a tutte le palestre che sono state aperte. Quando ho iniziato io erano pochissime, mentre adesso è più facile per chiunque iniziare a scalare. È uno sport che può essere davvero condiviso, anche se forse c’è ancora un po’ di strada da fare. Si può sempre migliorare, insomma».

James: «Le cose nell’arrampicata si stanno muovendo molto rapidamente. Nel mondo si sono aperti dibattiti inediti e in quanto uomo di mezza età, della classe media, abile, bianco ed etero mi sento la persona meno interessante in circolazione. Ci sono storie grandiose di persone che prima non avevano una voce e se ora posso dare un po’ del mio spazio a qualcuno che ne ha bisogno più di me sono felicissimo di farlo. Per anni ho viaggiato solo con persone che mi assomigliavano, che parlavano e pensavano come me… credo invece che una sempre maggiore diversità tra chi pratica l’arrampicata sia un’ottima cosa, perché porta punti di vista e opinioni differenti».

Quest’estate (soprattutto dopo il post Instagram di Janja Garnbret) si è iniziato a parlare più diffusamente dei disturbi alimentari e della malnutrizione nell’arrampicata, in relazione soprattutto al mondo delle gare. Cosa ne pensate?

Camilla: «Quest’anno il tema è arrivato sui social, è vero, ma in realtà nel mondo delle gare se ne parla già da tanto tempo. Credo che rispetto a tanti anni fa l’arrampicata sia già migliorata su questo tema: in passato si tendeva a essere più magre per diventare più performanti nelle gare, mentre ora questa tendenza è minore. Credo che in parte sia inevitabile dimagrire un po’, perché combattiamo contro la gravità, ma ci deve essere un limite e un modo per tutelare la salute».

Jacopo: «È un tema da sempre legato all’arrampicata e anche secondo me c’è già stato un miglioramento rispetto al passato. Con i social l’argomento è esploso e trovo corretto che se ne parli così tanto e che si cerchi di fare effettivamente qualcosa, almeno nel mondo delle gare e soprattutto in quelle giovanili. Come in tutti gli sport praticati ad alto livello, è ovvio che si cerchino dei compromessi per migliorare la performance, ma bisogna sempre rispettare la propria salute».

James: «È un tema enorme. In base alla mia esperienza come trad climber e conoscendo quella di Caroline come ex atleta nelle competizioni, credo che i disturbi dell’alimentazione siano probabilmente meno frequenti al di fuori del mondo delle gare, ma è vero che anche nel trad e nell’arrampicata outdoor è pieno di persone con un pessimo rapporto con il cibo. Se l’ottimo lavoro che adesso stanno portando avanti le organizzazioni nazionali e molti allenatori e atleti riuscirà a filtrare anche al di fuori dal mondo delle competizioni, non potrà che essere una buona cosa. La cruda verità è che sul breve periodo fare una dieta molto restrittiva per perdere peso fa una differenza incredibile nell’arrampicata, ma fa anche molto male e potenzialmente causerà problemi per il resto della vita. Non ne vale la pena. Io stesso ho avuto abitudini alimentari decisamente sbagliate perché volevo essere leggero: sentivo di avere il controllo della situazione, ma anche di essere su una china da cui sarei potuto cadere facilmente. Al momento Caroline sta lavorando a un grosso progetto video per portare alla luce questo tema, perché lei stessa ha sofferto di un disturbo alimentare quando faceva competizioni. Per sua stessa ammissione, non era troppo grave ed è riuscita a esercitare un certo controllo su di esso, e poi a eliminarlo completamente una volta smesso di competere. Eppure, le sembrava qualcosa di necessario per riuscire a gareggiare al massimo livello. Sono sicuro che ci sono molti atleti e atlete che sono in questa situazione e non pensano di avere scelta. Ma Caro ha deciso di parlarne quando si è accorta, allenando un climber più giovane, che non si tratta di qualcosa che riguarda solo gli atleti di alto livello».

Guardiamo al futuro: quali sono i vostri prossimi obiettivi?

Camilla: «Mi sto concentrando sugli eventi di qualifica alle Olimpiadi, che saranno il prossimo anno. È il mio principale obiettivo. Sento che c’è più pressione rispetto agli scorsi anni, sia da parte della Federazione che del movimento dell’arrampicata, ed è più difficile perché oggigiorno l’arrampicata delle competizioni si sta distaccando da quella su roccia. Mi sto concentrando molto sugli allenamenti e sulla scalata in palestra, ma credo che a fine stagione farò comunque almeno due settimane di vacanza: se non scalo su roccia accumulo troppo stress e non riesco a tornare ad allenarmi. La roccia mi aiuta a livello mentale e ad affrontare i miei obiettivi».

James: «Fortunatamente a gennaio ho chiuso un progetto che mi aveva tenuto impegnato per qualche anno; quindi, per ora non ho un altro grande obiettivo. Sento già una piccola spinta verso la ricerca di un nuovo progetto, ma è diventato difficile trovarne uno innovativo che combini un elevato livello di difficoltà e un giustificabile ma interessante livello di rischio, e che non sia pura arrampicata in fessura – uno stile che non amo molto. Per ora non ho idee particolari, ma dedicherò molto tempo alla ricerca».

Jacopo: «Negli ultimi anni ho cercato di combinare tutte le varie discipline che pratico nell’arrampicata. L’obiettivo, il sogno, è riuscire a farlo sempre di più e portare il livello che ho in falesia e nell’arrampicata trad sui monotiri anche nelle grandi pareti e nelle spedizioni. Vorrei magari riuscire ad aprire una via molto difficile solo con protezioni tradizionali su una parete remota in Pakistan o da qualche parte… ho già delle idee in mente, ma vedremo. Ho anche un progetto più vicino, in val di Mello: una vecchia via lunga che mi piacerebbe salire in libera. Ho iniziato a provarla quest’anno e sarebbe un bell’obiettivo per i prossimi anni».

Jacopo, dopo aver chiuso Tribe avevi condiviso una riflessione sull’importanza eccessiva che a volte attribuiamo al grado. È un’idea che continua ad accompagnarti?

«Sì, non ho più gradato niente di quello che ho liberato. Per me ha perso significato: la bellezza e la storia di una linea sono ciò che mi ispira principalmente. Anche la difficoltà, certo, ma non il numero in sé. Però è una cosa personale: ognuno è libero di vivere l’arrampicata come preferisce. In passato il grado è sempre stato molto importante per me, era il modo per capire a che punto ero, ma con il tempo questa cosa è cambiata».

Per finire, vi chiedo due consigli: uno per chi inizia ad arrampicare oggi e uno per chi arrampica già da tempo.

Camilla: «Il miglior consiglio è scalare il più possibile. L’arrampicata è uno sport molto tecnico, quindi più movimenti apprendi, più esperienza accumuli, meglio è. E vale per tutti».

Jacopo: «Anche io ho un solo consiglio per tutti: scalare tanto e provare tutte le discipline dell’arrampicata, anche se poi ci si appassiona magari a una sola di queste».

James: «A chi inizia dico di non avere fretta di fare progressi dal punto di vista fisico. Andate semplicemente ad arrampicare e lasciate perdere sollevamento pesi, trazioni e allenamenti per le dita. Non perdete l’occasione di sviluppare una buona tecnica di base, che è più facile da apprendere quando non si è fisicamente forti. Quando poi si arriva al plateau, e prima o poi accade, allora forse si possono trovare altri modi di allenarsi. A chi arrampica già da tempo, invece, dico: non pensate semplicemente che avete bisogno di migliorare, ma chiedetevi di fronte a quale esigenza vi sta mettendo l’arrampicata. Quale stile vi piace? Se amate scalare vie a strapiombo, non ha senso lavorare sulla pura forza delle dita. Se possibile, poi, affidatevi a un allenatore. Ho perso anni seguendo programmi di allenamento fai da te che non funzionavano».

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